Revista Electrónica de Ciencia Penal y Criminología
RECPC 02-01vo (2000)
BENE GIURIDICO E RIFORMA DEI DELITTI CONTRO LA P. A.
Vittorio Manes
Doctorando en Derecho penal. Universidad de Trento
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SUMARIO
1. L’esigenza di una concretizzazione del bene giuridico
2. Le indicazioni interpretative suggerite da alcune pronunce giurisprudenziali
3. Le riforme ‘pericolose’
4. Riforma dei delitti contro la P.A. e principio di esiguità

1. L’ESIGENZA DI UNA CONCRETIZZAZIONE DEL BENE  GIURIDICO
    Il dibattito sulla riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione è una costante della riflessione penalistica attuale, non solo nell’ordinamento italiano.
    Dall’emersione della corruzione come fenomeno ‘sistemico’, alla sempre crescente considerazione delle patologie dell’azione amministrativa in tutti i suoi aspetti (prevaricazioni, abusi della funzione, malversazioni, omissioni dei doveri d’ufficio), le problematiche sono, tuttavia, quasi esclusivamente inquadrate da una angolatura di politica criminale, e le opzioni avanzate risentono di condizionamenti troppo spesso piegati ad esigenze repressive; il che non consente una sempre adeguata ponderazione delle peculiari esigenze dogmatiche della materia.
    Tra queste, quella che fra tutte in via principale dovrebbe guidare una riforma delle fattispecie penali a tutela della amministrazione pubblica: la corretta individuazione degli interessi che si intendono tutelare, e, dunque, il dibattito sul bene giuridico.
    Proprio a questo aspetto sono dedicate queste riflessioni.
    Il presupposto di partenza da cui, a mio parere, si dovrebbero prendere le mosse può sembrare quasi paradossale: in una materia che si impegna a tutelare l’articolarsi della funzione pubblica, che si ripromette di assicurare conforme al ‘buon andamento e all’imparzialità’ - le aspettative istituzionali sull’agire degli apparati statali -, le linee direttrici della riforma dovrebbero essere verso il progressivo abbandono di una dimensione esclusivamente pubblicistica, astratta, del bene giuridico (assunto come bene giuridico generico) e un corrispondente progressivo guadagno di terreno a favore di una dimensione per quanto possibile individuale, particolaristica dell’oggetto della tutela, ricostruito con tratti specifici a seconda delle singole norme.
    Dovrebbe cioè esser sempre più valorizzata la differenza tra bene giuridico di categoria - oggetto giuridico ‘a bassa definizione’ che spesso è nulla più di una parafrasi dei criteri cui si vorrebbe improntare la stessa funzione amministrativa -, e bene giuridico specificamente tutelato dalla singola norma, focalizzato su un aspetto particolaristico e più concreto della tuela; in uno sforzo che, in definitiva, proceda dall’universale al particolare.
    Certo non occorre sottolineare i guadagni offerti da una tale impostazione. Basti ricordare che una progressiva concretizzazione del bene tutelato, riportato ‘a misura d’uomo’, segnerebbe il passaggio da un’ottica formalistica, troppo spesso appiattita su principi generali e onnicomprensivi (anche se valorizzati da un sicuro aggancio costituzionale) (1) ad una ottica che, attraverso parametri più tangibili, permetta di dare concreto rilievo ai diversi gradi dell’offesa.
    Queste direttrici – che dovrebbero già ispirare l’interpretazione delle fattispecie attuali – dovrebbero anche guidarne una eventuale riforma, in prospettiva de iure condendo.

2. LE INDICAZIONI INTERPRETATIVE SUGGERITE DA ALCUNE PRONUNCE GIURISPRUDENZIALI
    L’esigenza di concretizzazione delle fattispecie ove maggiormente emerge il ‘volto funzionale’ della tutela, sembra recentementente aver raccolto confortanti consensi anche da parte della giurisprudenza di legittimità.
    Un primo esempio si è avuto nel delitto di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), dove la ricostruzione della fattispecie secondo lo schema del reato di evento (il vantaggio patrimoniale o il danno per il privato), e non più di reato di mera condotta (qualificata dal dolo specifico di vantaggio o danno), ha portato la giurisprudenza, almeno nei casi di abuso di danno - corrispondente per certi versi al delitto di ‘Prevaricaciòn’ di cui all’art. 404 del Còdigo Pénal spagnolo - a riconsiderare il bene giuridico in un’ottica di plurioffensività, affiancando all’interesse pubblico al buon andamento e alla trasparenza della p.a. il concorrente ‘interesse del privato a non essere turbato nei suoi diritti dal comportamento illegittimo del pubblico ufficiale’. Per tal via, la Suprema Corte è giunta a riconoscere alla persona che subisce il danno la qualità di persona offesa dal reato, con le conseguenti facoltà di diritto sostanziale e processuale che sono peculiari attribuzioni di questa (2).
    Anche in tema di omissione di atti d’ufficio (art. 328 c.p.) si registrano affermazioni giurisprudenziali volte a definire l’oggetto della tutela valorizzando il profilo esterno della tutela della funzione amministrativa, ossia il momento di contatto con la sfera degli amministrati, chiamati dunque a svolgere un ruolo non più di comparse ma di co-protagonisti. Una tale ricostruzione emerge in una recente sentenza che ritiene inapplicabile la disciplina di cui all’art. 328, comma 2°, c.p. ai rapporti tra pubbliche amministrazioni, affermando che "la norma (…) è finalizzata ad apprestare sostanziale tutela all’interesse del privato cittadino che formalmente rivolga richiesta al pubblico ufficiale (o all’incaricato di pubblico servizio) di adempimento di un atto del suo ufficio e, comunque, di risposta per notiziare le ragioni del ritardo, fissando un dato temporale (trenta giorni) e uno formale (richiesta di forma scritta), collegati dalla ricezione della richiesta stessa da parte della p.a." (3).
    Anche in questa decisione, dunque, si assiste ad uno sforzo di concretizzazione del bene istituzionale, sfuggendo ad una ricostruzione astratta dello stesso e ad una conseguente interpretazione formalistica della fattispecie.
    Questo condivisibile trend verso una interpretazione sostanzialistica della fattispecie non è pero costante, né comune a tutte le fattispecie.
    Esempi ondivaghi si rilevano ad esempio in tema di peculato, dove se talvolta si abbraccia l’ottica della plurioffensività (tutela sia del bene astratto buon andamento e imparzialità della p.a., che del patrimonio della stessa) per escludere l’offensività (o la tipicità stessa) della condotta di appropriazione di somme esigue, altre volte si assegna alla stessa prospettiva istituzionale della tutela un posto di primo piano per considerare irrilevante per la configurabilità del reato l’ammontare della somma oggetto di appropriazione (4).
    Anche in tema di corruzione si registrano alterne vicende, che vedono spesso la giurisprudenza avallare una lettura del tutto formalistica della fattispecie, in base alla quale anche la ricezione di danaro svincolata da un preciso atto d’ufficio potrebbe costituire corruzione punibile, perché comunque idonea a porre in pericolo il buon andamento (nella corruzione propria) e l’imparzialità (nella corruzione impropria) dell’amministrazione.
    Ma una tale interpetazione, troppo lontana da una concreta offensività degli illeciti in questione, comporta una regressione della tutela sulla semplice ‘venalità della carica’, fino ad un appiattimento del precetto sul mero divieto per il pubblico agente di accettazione di denaro o utilità indebite.
    Questo ultimo esempio ci permette di passare al secondo punto, il problema delle opzioni di riforma da seguire, o quanto meno, come vedremo, da scartare.

3. LE RIFORME ‘PERICOLOSE’
    Anzitutto, in tema di corruzione non sembra condivisibile l’opzione per un ulteriore allargamento della fattispecie, a più riprese avanzato in sede di convenzioni internazionali e recepito anche in seno a talune recenti proposte di legge italiane (5), volte ad eliminare il requisito dell’atto d’ufficio, elemento di tipicità essenziale per ricostruire il bene specificamente tutelato in questa norma nel senso della tutela della efficienza e imparzialità dell’azione amministrativa, presa in considerazione nella prospettiva dinamica del suo concreto esercizio (6).
    La estensione della fattispecie di corruzione alla ricezione (o accettazione della promessa) di utilità indebite per il semplice esercizio della funzione, o in considerazione della stessa (come espressamente prevede l’art. 426 del Còdigo Pénal) – scelta pur seguita dal legislatore tedesco in tema di corruzione nella recente Gesetz zur Bekämfung der Korruption del 1997 - , significherebbe optare per una tutela incentrata più sulla semplice venalità della carica, della qualifica pubblicistica, che non dell’effettiva correttezza dell’attività svolta.
    Inoltre, una riforma del genere vorrebbe dire cercare la soluzione del problema allargando l’area della rilevanza penale fino a comportamenti di dubbio significato, lontani da un diritto penale del fatto e pericolosamente vicini all’autore, da considerare riprovevole appunto per il suo atteggiamento venale.
    Così il legislatore dimostrerebbe, una volta di più, una affezione quasi monomaniaca per lo strumento penale, chiamato ad intervenire come protagonista principale, da cui si pretendono prestazioni sempre più esose.
    La logica è nota, e risponde al criterio del ‘more of the same’; stessa terapia, ma più energica. Si dimenticherebbe però che finora questa ‘terapia d’urto’ – più simbolica che effettiva - ha dato pochissimi frutti, e che di fronte a fenomeni che sempre più assumono una dimensione sistemica, la vera svolta sarebbe una radicale inversione di rotta verso l’implementazione di strumenti preventivi, o anche di tipo sanzionatorio, ma di altra natura (misure interdittive, meccanismi di controllo effettivi, oggi affetti da una inefficacia tragicomica, etc.) (7).
    In definitiva, riprendendo uno spunto di Marinucci (8), occorrerebe scongiurare una tecnica di costruzione dell’illecito dove emerga il bene giuridico senza una precisa individuazione delle modalità di lesione. E sicuramente una fattispecie di corruzione costruita sul pagamento di indebito per l’esecizio della funzione rappresenterebbe una norma a spettro totale svincolata da contrassegni di tipicità tali da chiarire il profilo del bene giuridico che si vuole tutelare, e dunque senza vera capacità selettiva.
    Un problema per certi versi analogo è quello che interessa la eventuale codificazione di una fattispecie di traffico di influenze, norma sfuggente già a livello di oggettività giuridica (9), e caratterizzata da condotte tipiche troppo indeterminate per assicurare al bene giuridico una effettiva capacità di selezione dell’area del penalmente rilevante. Basti pensare alla formulazione degli artt. 428 ss. del Còdigo Penal, che assegnano rilevanza penale alle condotte del pubblico agente (o del privato) che abusa anche solo delle relazioni personali per ottenere un atto favorevole per sé o per un terzo.
    Con ciò non si vuole negare che il delitto di ‘traffico di influenze’ possa avere una sua autonoma ratio essendi, perché permetterebbe la repressione (ancora una volta a largo raggio) di tutte le condotte di intermediazione illecita nell’esercizio della cosa pubblica, in cui il soggetto interposto (il politico o il faccendiere) non ricopra un ruolo pubblico rilevante ai fini dell’emanazione dell’atto.
    Ma resta il pericolo non lieve di una possibile strumentalizzazione processuale della norma, specie ove non vi sia la prova del contributo nella stipulazione del patto corruttivo da parte del ‘mediatore’; e la possibilità che anche una attività di semplice pressione politica, magari riconnessa ad un vantaggio economico finale, sia idonea ad integrare il tipo.
    E forse neanche tale fattispecie basterebbe ad assicurare l’effettiva repressione di tali comportamenti, perché pur a fronte dell’ampia possibilità di elevare una capo di imputazione costruito su una fattispecie così poco tassativa, residuerebbero difficoltà probatorie di non poco momento, e resterebbero serie difficoltà di pervenire ad una effettiva sentenza di condanna; il che è dimostrato, ad esempio, proprio dalla esperienza spagnola, dove si contano pochissime decisioni giurisprudenzali per tali titoli di reato.
    Se queste riforme dovrebbero essere ponderate con cautela, una riforma capace di fare chiarezza sul bene giuridico tuelato dovrebbe invece interessare la fattispecie di concussione (art. 317 c.p.).
    Si allude all’esigenza – ormai ineludibile – di eliminare la condotta di induzione, riducendo il delitto al solo fatto del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, ‘costringe’ il privato a dare denaro o utilità non dovute. Solo la restrizione della fattispecie alla sola condotta di costrizione, infatti, permetterebbe di centrare il fulcro della tutela in una dimensione maggiormente individualistica, che valorizzi il pregiudizio per la libera autodeterminazione del singolo, così da giustificare una diversità in termini di pena edittale tanto spiccata rispetto alla corruzione. Non è un caso che la condotta di induzione (o di sollecitazione, per usare il termine del legislatore spagnolo) nella disciplina penale degli ordinamenti più vicini al nostro (Francia, Spagna, Germania) appartenga all’area di tipicità della corruzione (o del coecho, nel Còdigo Pénal); il che risolve in radice la problematica querelle, tutta italiana, appunto, sulla ricerca dei confini ra corruzione e concussione (10).

4. RIFORMA DEI DELITTI CONTRO LA P.A. E PRINCIPIO DI ESIGUITÀ
    La prospettiva di maggior concretizzazione del bene giuridico tutelato in talune fattispecie a tutela della p.a. e la ricerca di connotati di concreta offensività che permettano di abbandonare la clausola omnibus del pericolo astratto coinvolge anche le problematiche legate al c.d. pricipio di necessaria lesività e alla tematica, diversa ed autonoma, dell’esiguità della condotta.
    Attualmente, in Italia, è acceso il dibattito sulla codificazione di principi, per lo più pensati in sede di ‘Parte generale’, che valorizzino la dimensione sostanziale del reato. In particolare si discute sulla necessità di codificare un generale principio di (necessaria) offensività dell’illecito penale, come limite esterno dell’area del penalmente rilevante, e corrispondenti adeguamenti interni all’area del fatto tipico e offensivo, che stabiliscano la punibilità dello stesso oltre la soglia della esiguità dell’offesa (di una offesa, dunque, già esistente).
    Il primo problema, quello del principio di offensività, discute sulla stessa sussistenza, nel caso concreto, dell’an dell’offesa arrecata con la condotta tipica, ed ha come punto di riferimento privilegiato la categoria dei reati di pericolo astratto e/o presunto (11).
    Il secondo aspetto della problematica, quello dell’esiguità del fatto, ha come presupposto un fatto offensivo, ma di portata così esigua da pretenderne l’irrilevanza penale.
    L’oggetto privilegiato, com’è noto, sono, in prima battuta, i reati bagattellari; e una clausola che dia rilievo (pro reum) all’ ‘esiguità’ del fatto viene condivisibilmete assunta come necessaria garanzia del soddisfacimento dell’istanza di sussidiarietà a livello giudiziale (12).
    E’ soprattutto questa seconda prospettiva che interessa il campo oggetto di questa breve indagine, perché se è vero che l’ ‘esiguità’ viene generalmente pensata come valvola di sfogo per le offese bagattellari, la stessa è sicuramente possibile protagonista anche nei casi di offese a beni talamente astratti, ‘macrodimensionati’, che da un lato non permettono di stabilire alcun discrimen tra lesione, pericolo concreto, pericolo astratto, dall’altro - pur non trattandosi di reati strutturalmente bagattellari, ma di ipotesi di reato contraddistinte da un ampio margine di variabilità – contemplano condotte, conformi al tipo legale, che possono scendere fino a soglie di offensività davvero marginali (tipicità e offensività, ma ridottissima).
    In questi casi, una questione posta nella prospettiva della carenza di offensività della condotta potrebbe essere, a mio parere, mal posta. Perché, in realtà, un problema in termini di offensività non si pone affatto. La problematica muove su piani differenti.
    Infatti, a fronte di beni giuridici istituzionali, definiti attraverso un ‘programma di intenti’ più che con riferimento a dati prepositivi, e necessariamente assunti in una dimensione astratta (pensiamo ancora a ‘buon andamento e imparzialità della p.a.’), la codificazione di un generale principio di offensività non produrrebbe vantaggi considerevoli (13). Le condotte conformi al tipo sono tutte astrattamente pericolose, e dunque offensive in base al coefficiente di offensività richiesto dalla struttura dei reati in questione, cioè il pericolo astratto (almeno nella gran parte dei casi) (14); in altri termini, qui è la natura del bene giuridico in oggetto che non permette una sicura definizione della condotta in termini di concreta pericolosità, ma richiama necessariamente un giudizio di pericolosità (solo) astratta.
    Il principio di offensività, in poche parole, non avrebbe efficacia operativa; resterebbe una definizione incapace di esprimere (ed operare) una effettiva scelta politico-criminale.
    La prospettiva più feconda sarebbe la seconda, quella della esiguità.
    Perché, come si anticipava, alcune condotte – ancor più in una materia che costituisce l’appendice patologica dell’esercizio della pubblica funzione, e che insiste dunque su una attività lecita di base a volte di estrema complessità (basti pensare alle violazioni di legge e regolamenti oggi suscettibili di configurare ‘abuso d’ufficio’) - possono ben assumere forma bagattellare; e preme sottolineare che qui non si tratta di reati strutturalmente bagattellari, ma fattispecie contraddistinte da un ampio margine di variabilità, fino a soglie di offensività davvero marginali (tipicità e offensività, ma estrema esiguità dell’offesa; così in alcuni casi di abuso d’ufficio, o di omissione di atti d’ufficio, ma anche nei casi di peculato o malversazione di somme ‘banali’ etc.,).
    E garantire un intervento penale davvero frammentario e sussidiario vuol dire prendere in considerazione livelli minimi di offensività dove stabilire la soglia della punibilità (o della procedibilità) (15).
    Resta, tuttavia, un ulteriore problema, circa l’eventuale collocazione (ed estensione) di una tale clausola, se in sede di parte generale, come clausola generale appunto applicabile a tutte le fattispecie di parte speciale, o invece prevedendo soluzioni differenziate per i diversi settori della parte speciale del codice.
    Entrambe le soluzioni possono sembrare percorribili.
    Tuttavia, a mio parere, la codificazione di una clausole generale di esiguità o di irrilevanza del fatto (sulla scorta, ad esempio, dell’istituto della rinuncia alla pena, "Absehen von Strafe" del § 60 StGB) costringerebbe il legislatore ad una previa ridescrizione della parte speciale del codice in tutti quei casi, e non sono pochi, in cui il bene giuridico è caratterizzato da una notevole astrattezza, come, nel nostro caso, l’amministrazione della cosa pubblica, la conduzione dell’economia, la gestione del mercato e così via.
    In questi casi, dove risulta difficile parametrare l’offesa attraverso la quantificazione di un danno, di una lesione concreta, perché l’illecito risulta appiattito sullo schema del pericolo astratto, una clausola generale di esiguità incentrata prevalentemente sull’entità dell’offesa al bene protetto, può riuscire difficilmente fruibile, e dunque non particolarmente vantaggiosa.
    Anche nei casi in cui a fianco di un bene istituzionale, o funzionale, emerge un bene di carattere più tangibile, in una dimensione di plurioffensività – per chi ammette ed accetta questa già problematica categoria - una clausola generale di esiguità non risolverebbe molto, giacchè occorrerebbe pur sempre decidere a quali dei due beni dare rilevanza in concreto (16). Il problema è noto: l’esempio, già accennato, del peculato integrato da una appropriazione di una somma esigua è emblematico, perché risolto dalla giurisprudenza in modo radicalmente diverso a seconda del bene giuridico che si ritiene protagonista dell’offesa: si considera configurato il reato se si ritiene che il bene protetto sia quello – di rango esclusivamente pubblicistico e istituzionale – identificato dai principi che informano l’azione amministrativa a buon andamento e imparzialità; si perviene a soluzione opposta, negando la configurabilità dell’illecito, se si ritiene che tra gli interessi protetti dalla norma un rilievo preminente abbia anche il patrimonio della p.a., sicuramente non inciso da una appropriazione scarsamente significativa.
    Come alternativa ad una soluzione generalizzata, potrebbe avanzarsi una diversa ipotesi.
    Codificare una clausola ad hoc di esiguità per singole disposizioni, o per singoli settori di disciplina, ancorata non ad un generico riferimento all’irrilevanza dell’offesa, ma a specifici aspetti della stessa con riferimento a singole disposizioni.
    Una tale opzione potrebbe garantire due vantaggi:
a) anzitutto garantirebbe una sicura operatività in concreto della clausola stessa;
b) in secondo luogo, pur essendo un profilo di estrema importanza, contribuirebbe a chiarire quale interesse è tutelato in via specifica, senza comode fughe in avanti verso un onnicomprensivo interesse di categoria, capace di ricomprendere qualsiasi violazione anche meramente formale della fattispecie tra le condotte offensive dei principi che si vogliono garantire nel titolo in esame.
    L’idea, peraltro, non è nuova, essendo già stata avanzata in uno degli innumerevoli piani di riforma dei delitti contro la p.a., perennemente allo stadio di work in progress.
    Nel progetto di riforma della norma sull’abuso d’ufficio proposto dalla Commissione Morbidelli, erano contenute una serie di disposizioni comuni, tra le quali rientrava una causa di non punibilità per i fatti di peculato, malversazione ai danni dello stato e abuso d’ufficio a fini patrimoniali qualora il fatto non avesse cagionato, né fosse idoneo a cagionare, un danno patrimoniale pubblico o privato di ammontare superiore ad una determinata somma (nella specie di lire dieci milioni), sempre che il danno medesimo fosse riparato per intero.
    Un’altra disposizione dello stesso progetto considerava non punibili i fatti di abuso d’ufficio fino a quando gli stessi non avessero prodotto effetti esterni alla p.a. (17); considerazione simile a quella raggiunta, motu proprio, dalla recente giurisprudenza in tema di omissione di atti d’ufficio, che, come accennato, non ritiene configurabile il fatto qualora il comportamento omesso non fosse destinato ad avere una evidenza esterna, ma solo a scandire l’attività interna della amministrazione (18).
    Naturalmente, le ipotesi accennate hanno un valore meramente esemplificativo, e il riferimento prescinde da un giudizio di merito sulle stesse. Spetterebbe ad una meditata analisi sugli interessi cui dare preminenza nelle specifiche ipotesi di reato, eventualmente riunite in gruppi, il compito di individuare le ipotesi di esiguità dell’offesa più degne di considerazione, definite già a livello legale, come quelle incentrate sul profilo quantitativo dell’offesa o qualitativo del fatto, cioè ‘agganciate’ a parametri fissi, oppure aperte ad una ulteriore valutazione giudiziale, come quelle modulate su parametri fluidi e ulteriormente individualizzati sulla condotta dell’autore individuale (cioè attraverso elementi di maggior personalizzazione connessi anche a comportamenti o condizioni personali dell’autore del fatto, etc.) (19).
    Ad una tale proposta potrebbe obiettarsi di risolversi in un eccesso casistico (20), o persino in una ingiustificata considerazione particolare di certe ipotesi, con conseguente, eventuale, disparità di trattamento.
    Tuttavia, non può non considerarsi come la risoluzione di problemi così differenti a seconda dei beni giuridici di riferimento non possa essere correttamente risolta attraverso l’impiego di ‘clausole generali’, e richieda dunque una pur impegnativa considerazione individualizzata; d’altronde, lo stesso legislatore del ’30, in tempi certo diversi - e meno esposti (almeno per certi settori) alle critiche di Lüderssen tese a stigmatizzare certe scelte differenziate e ‘riduzioniste’ come scelte ideologiche a favore di un ‘diritto penale di classe’ (21) - dimostra di aver considerato una tale prospettiva riconducendo, solo in determinati (e forse troppo rari) casi, sensibili attenuazioni della sanzione in ipotesi di speciale o particolare tenuità, lievità, di minima importanza, etc. (22).
    Inoltre, nella significativa ipotesi del danno patrimoniale di particolare tenuità, la considerazione nella quale il legislatore dimostra di tenere l’esiguità della condotta, è tale da assumere la scarsa rilevanza dell’offesa come parametro di deflazione non solo della sanzione penale, ma dello strumento penale in generale, anche, quindi, sotto il profilo processuale; la circostanza dell’art. 62 n. 4 c.p. (insieme alle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena diversa e alle circostanze c.d. ad effetto speciale) è infatti l’unica circostanza da computarsi per la determinazione della pena da considerarsi ai fini dell’applicazione della disciplina delle misure cautelari (art. 278 c.p.p.) e dell’arresto in flagranza di reato e fermo (art. 379 c.p.p. che rinvia alla disposizione appena citata).
    Dunque tale particolare considerazione del fatto esiguo permette un duplice livello di deflazione, sia nella (e, oggi, limitatamente alla) fase della commisurazione della pena, sia, più a monte, nella inibizione del ricorso a determinati meccanismi processuali per fatti di scarsa rilevanza; meccanismi dal costo sociale particolarmente elevato, specie in termini di garanzia, ma anche particolarmente dispendiosi sotto il profilo dei costi processuali (basti pensare ai procedimenti di convalida e di garanzie incrociate predisposti a tutela della corretta esplicazione dei poteri di polizia giudiziaria e della corretta applicazione delle misure coercitive).
    E, allora, in tempi in cui si invoca a gran voce un ritorno alla frammentarietà dell’intervento penale, non si capisce perché si possa ammettere la previsione di soglie di esiguità cui ancorare la previsione di circostanze attenuanti speciali in più settori del nostro codice penale e con significativi risvolti anche in sede processuale - a volte frutto di una particolare considerazione, come nell’ipotesi accennata - e non si possa invece prendere atto del fatto che, una condotta caratterizzata da una offesa esigua, anche se in base ad un giudizio necessariamente ex post, non assurge ad un livello di meritevolezza tale da giustificare la punibilità in concreto.
    Concludendo, i vantaggi, a mio parere riconducibili ad una scelta settoriale sarebbero meritevoli di riflessione: al posto che una risposta simbolica a problemi concreti, e diffusi, risposta che in molti casi non garantirebbe considerevoli effetti deflattivi e alzerebbe comunque il margine di discrezionalità alimentando - almeno a fronte di beni giuridici connotati da plurioffensività - una maggiore disparità di trattamento, la codificazione di clausole di esiguità decentrate consentirebbe di raggiungere un duplice effetto senza dover passare per una improbabile, quanto difficoltosa e necessaria, riforma della parte speciale.

NOTAS
(1) In particolare, oggi più che mai è viva l’esigenza di evitare - nella scelta del paradigma su cui coniugare l’accertamento penale - fughe ‘verso l’alto’ (coperte dal riparo di principi troppo generali) sollecitando invece una spinta ‘verso il basso’, guidata dalla trama di regole che dei principi generali sono concretizzazione (e costituiscono l’appendice operativa dei principi stessi); proprio nell’attuazione dei principi si gioca infatti la fondamentale scelta politica del legislatore, che il giudice non può rimettere in discussione attraverso una interpretazione per saltum che rimandi ai principi stessi. Altrimenti, la stessa prerogativa del potere legislativo sarebbe pregiudicata, e la divisione dei poteri ridotta a blasone di una gloria trapassata. La Suprema Corte, d’altronde, ha recentemente dimostrato sensibilità per tali considerazioni, dichiarando insuscettibili di essere presi a criteri di valutazione della violazione di legge tipica della riformata fattispecie di abuso d’ufficio i principi dell’art. 97 Cost., considerati troppo generali (perché principi, appunto, e non regole: cfr. Cass. Sez VI, 4 dicembre 1998, Tosches, in Foro it. 1998, II, 390, con note di La Greca e Manes, ove si sottolinea, appunto questa differenza).
(2) Cass. Sez. VI, 3 marzo 1999, Inchingolo, in Guida dir. n. 15/1999, p. 57 ss., ove, infatti, si riconosce al privato la legittimazione a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero.
(3) Cass. sez. VI, 30 novembre 1998, Fusco, in Guida dir. n. 12/1999, pp. 77 ss, e precedenti citati nella motivazione.
(4) Così Cass. 24 settembre 1996 n° 8647 in Guida dir. n.50/1996, ove si afferma che l’esiguità della somma sottratta nel delitto di peculato non esclude il reato, perché comunque sussisterebbe una lesione del buon andamento e imparzialità della P.A. La Cassazione non ritiene dunque necessaria anche la lesione del bene patrimonio, come affermato in precedenti decisioni che affermavano l’irrilevanza penale di sottrazioni esigue; in questo caso, dunque, la prospettiva è quella esclusivamente istituzionale.
(5) La spinta verso una estensione della fattispecie di corruzione segue peraltro il trend segnato dalle convenzioni internazionali in tema di corruzione, come la convenzione dell’OECD per la lotta alla corruzione interazionale e la convenzione dell’Unione europea contro la corruzione (sul punto cfr. Forti, Basic features of the Legislation for Combating Corruption and Bribery in the Member States, in corso di pubblicazione in Combatting Corruption in the European Union, Atti del Convegno di Trier, dicembre 1998, a cura di Huber, Frosch, Trier, 1999; sul punto anche Huber, Il sistema tedesco di lotta alla corruzione in comparazione con quelli di altri paesi europei,, in corso di pubblicazione in RTDPE, 1 ss). Inoltre, anche nel recente 'Corpus iuris contenente disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell'Unione europea' si propone una definizione della fattispecie di corruzione estesa fino a comprendere dazione (e accettazione) di danaro per 'un atto della funzione o un atto nell'esercizio della funzione' (cfr. Verso uno spazio giudiziario europeo, Corpus iuris,(a cura di Grasso), Milano 1997, p. 58 ss.).
(6) Sulle problematiche relative alla attuale svalutazione dell’atto d’ufficio nei delitti di corruzione, anche con riferimento alle proposte di riforma che lo vorrebbero ‘elidere’, ci permettiamo di rinviare ad un nostro precedente lavoro, La rilevanza dell’atto d’ufficio nelle fattispecie di corruzione, in corso di pubblicazione in RIDPP 1999.
(7) Ivi, § 9, ove si tenta una disamina degli strumenti di una possibile strategia preventiva. Sull’inefficacia dei controlli disciplinari, a più riprese denunciata dalla stessa Corte dei Conti, si veda l’articolo di cronaca apparso sul quotidiano La Repubblica, Venerdì 12 novembre 1999, In servizio nei ministeri i tangentisti condannati, di M. Travaglio.
(8) Così Marinucci, Intervento nel dibattito sulla Relazione della Commissione Ministreriale per la riforma del codice penale (istituita con d.m. 1 ottobre 1998, e presieduta dal Prof. Grosso), in seno al convegno ‘Pena fissa, pena minima, pena massima: dal codice penale lucchese ai codici penali degli anni novanta del XX secolo’, organizzato a cura del Prof. Vinciguerra, Padova, 22-23 ottobre 1999. Sui rapporti tra bene giuridico e formulazione della norma incriminatrice, in generale, v. Marinucci/Dolcini, Corso di diritto penale, vol. I, Milano 1999, pp. 391 ss.
(9) Opinione radicalmente opposta nelle affermazioni emergenti dal dibattito parlamentare che precedette la Ley Organica 9/1991, con la quale si introdussero nel precedente Codigo Penal le fattispecie appunto di traffico di influenze e di uso di informazione privilegiata:; in quella sede si affermò che la riforma era dettata dall’esigenza di adeguare la tutela penale della Pubblica Amministrazione alle esigenze costituzionali di imparzialità, trasparenza, efficacia e servizio agli interessi generali come nuovi beni giuridici meritevoli di tutela penale: cfr. Morales Prats/Rodriguez Puerta, Comentario del Titulo XIX, Consideracion general, in AAVV, Comentarios al Nuevo Codigo Penal, (dirigido por Quintero Olivares), Pamplona, 1996, pp.1769).
(10) D’altronde, lo stesso legislatore dimostra di avere sempre meno fiducia in una tale definizione normativa della condotta, assegnandole un posto limitatissimo e residuale anche nella recente riforma dei delitti di violenza sessuale, delitti connotati da un coefficiente di disvalore (e, conseguentemente, di meritevolezza di tutela) sicuramente superiore rispetto alla concussione. Solo in ipotesi particolari, previste al comma 2° dell’art. 609 bis c.p., connotate da un obiettivo stato di inferiorità della vittima (‘inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto’) o dalla creazione fraudolenta di una erronea rappresentazione della realtà oggettiva da parte dell’offeso (tassativamente limitato ai casi di sostituzione di persona), si assegna rilievo alla condotta di induzione, richiedendo nel comportamento dell’agente una intensità sensibilmente inferiore rispetto alla regola del comma 1°, che definisce la condotta dell’agente nei termini certo più significativi e pregnanti, della costrizione (‘con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità’). Sul presupposto dell’eliminazione della condotta di induzione, un’ulteriore opzione meritevole di considerazione è quella che propone una radicale abrogazione della stessa fattispecie di concussione, giustificata sulla base della sufficienza della tutela apprestata da altre norme, e segnatamente quella dell’estorsione, eventualmente aggravata dall’ ‘abuso dei poteri inerenti una pubblica funzione’, secondo l’art. 61 n. 9 c.p.
(11) La tematica dell’offensività può essere considerata ormai un classico della riflessione penalistica contemporanea, almeno a far data dalla fine degli anni ’50, da quando cioè, la maturazione dei guadagni della c.d. concezione realistica del reato ha portato alla definitiva focalizzazione del c.d. principio di necessaria lesività nel prisma delle direttrici costituzionali: sul punto, fondamentale, Bricola, Teoria generale del reato, in Noviss. Dig. it., UTET, XIX, 1973, pp. 7 ss. (e ora anche in Scritti di diritto penale, a cura di Canestrari e Melchionda, vol. I, Milano 1997, pp. 539 ss.); di recente, per una ampia sintesi della questione, v. Riccardi, I ‘confini mobili’ del principio di offensività, in IP, 1999, pp. 711 ss., cui si rimanda per i riferimenti bibliografici e per una panoramica sulle più interessanti pronunce della giurisprudenza, che dimostra - pur a cadenze alternate – progressiva sensibilità verso la capacità ermeneutica del principio. Come è noto, la problematica è stata anche oggetto dei lavori della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, che il 4 novembre 1997 ha licenziato un Progetto di riforma costituzionale che nella complessa architettura dell’art. 129 prevedeva anche l’introduzione del c.d. principio di necessaria offensività dell’illecito penale: in merito, v. Donini, L’art. 129 del progetto di revisione costituzionale approvato il 4 novembre 1997. Un contributo alla progressione ‘legale’ prima che ‘giurisprudenziale’, dei principi di offensività e di sussidiarietà, in Critica del diritto 1998, pp. 95 ss. (relazione tenuta nel seminario di Roma, 6 febbraio 1998, seguita dagli interventi di Rossi, Fiandaca e Mazzacuva). Sulle stesse problematiche è stata impegnata anche la Commissione Ministeriale per la riforma del codice penale (v. la Relazione della Commissione Ministeriale per la riforma del codice penale, citata alla n. 2, pubblicata in RIDPP, 1999, pp. 600 ss).
(12) In merito a questa problematica, e senza dubbio, la valorizzazione più compiuta del requisito dell’esiguità si deve a Paliero (Minima non curat praetor, Padova, 1985, parte IV, cap. II, pp. 653 ss.). Sul punto, cfr. anche Donini, Teoria del reato. Una introduzione, Padova, 1996, pp. 238 ss., secondo il quale "(…) Finchè non sarà possibile costruire tutti i reati su basi di concreta pericolosità quanto meno della condotta ex ante, dovendosi ricorrere a forme di astrazione del pericolo, i principi di proporzione e sussidiarietà impongono di demandare almeno al giudice l’estromissione non solo dei comportamenti provatamente inoffensivi, ma anche quelli di estrema esiguità lesiva" (in ptc. p. 244).
(13) Considerazioni analoghe già autorevolmente sostenute da Fiandaca, Intervento nel dibattito sull’art. 129 del Progetto di riforma costituzionale, cit. alla nota 12.
(14) Anche se, come si è anticipato, il legislatore potrebbe impegnarsi in una descrizione maggiormente vicina alla dimensione individuale-concreta, come, ad esempio – e pur con tutte le riserve che possono muoversi al novellato testo dell’art. 323 c.p. – ha dimostrato di poter fare nella riforma dell’abuso d’ufficio.
(15) Non è questa la sede per affrontare le diverse opzioni offerte per codificare una clasuola di tal fatta, sostanzialmente riconducibili a due orientamenti, sintetizzati nella Relazione della Commissione Ministeriale, citata (§§ 1 e 2). Il primo suggerisce la valorizzazione della esiguità sotto forma di causa di non procedibilità, sull’esempio dell’istituto previsto nel sistema penale minorile, e reintrodotto dall’art. 27 comma 1 D.P.R. 22 settembre 1998, n. 448, che dispone la non procedibilità sulla base della ‘tenuità del fatto’ e dell’ ‘occasionalità del comportamento’. Un tale modello, già presente per la giustizia penale ‘maggiore’ nel sistema penale tedesco ai §§ 153 e 153a StPO in tema di archiviazione di ipotesi bagattellari, è ripreso tra le modifiche processuali che vorrebbero accompagnare l’introduzione del giudice monocratico di primo grado (disegno di legge C/4625; in senso analogo già il progetto di riforma governativo mirante a introdurre un nuovo art. 346-bis c.p.p. fra le cause di non procedibilità per irrilevanza del fatto, riprodotto in Guida dir. n. 8/1998, p. 19 ). Il secondo prevederebbe invece la codificazione di una generale causa di non punibilità, che si ritiene maggiormente praticabile perché – pur non avendo la stessa efficacia deflattiva, almeno in termini processuali – garantirebbe maggiore compatibilità con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.). Sul punto, ancora, Donini, L’art. 129 del progetto di revisione costituzionale, cit., § 3., pp. 109 ss., in ptc. nota 31.
(16) Non è un problema ermeneutico, ma un problema politico. Sul punto, cfr. anche Donini, L’art. 129 del progetto di revisione costituzionale, cit., pp. 113, 116.
(17) E’ indifferente, ai fini della nostra breve indagine, la qualificazione che possa darsi di queste due ipotesi: entrambe possono essere considerate condizioni che fondano la punibilità ovvero mere cause di non punibilità. A nostro parere, ipotesi come queste sarebbero tecnicamente da inquadrarsi come condizioni fondanti la punibilità, data la intrinseca inerenza all’offesa, e il collegamento funzionale (anche se non soggettivo) con la lesività del fatto; sulla solo relativa fungibilità tra le due opzioni, cfr. ancora Donini, op. ult. cit., pp. 115-120.
(18) Sempre in tema di omissione di atti d’ufficio, e in una prospettiva analoga, volta a dare rilievo anche al profilo sostanziale dell’offesa, cfr. anche Cass. 11 dicembre 1998, n. 12977, Concu, in Riv. Pen. 1999, 41 ss. : "Ai fini della configurabilità del reato di rifiuto di atti d’ufficio, nell’ipotesi prevista dall’articolo 328 co. 2° c.p., occorre che l’atto d’ufficio non compiuto ed in relazione al quale non vengano fornite in termini di legge, a specifica richiesta dell’interessato, le ragioni del ritardo, sia un atto dovuto, e quindi idoneo ad esprimere utilmente, e non in modo ultroneo e superfluo, la posizione della p.a. nel rapporto con il privato. Ne consegue che non ogni richiesta di atto da parte del privato è idonea ad attivare il meccanismo che può dar luogo alla configurabilità del reato de quo, dovendosi tale idoneità riconoscere solo a quelle richieste che siano funzionali ad un effettivo e doveroso dinamismo della p.a., si estrinsechi esso in atti facoltativi, vincolati, o comportanti una certa discrezionalità, sempre che trattisi di atti costituenti comunque espressione di un preciso dovere legale del pubblico ufficiale o dell’i.d.p.s. Il reato è poi comunque da escludere quando – come nel caso della richiesta di accesso a documenti disciplinata dall’art. 25 della l. n. 241/1990 – la mancata risposta alla richiesta del privato nel medesimo termine previsto dalla norma penale (30 gg), dia luogo a silenzio rifiuto perché quest’ultimo equivale, sia pure per presunzione, al compimento dell’atto e viene comunque a determinare una situazione concettuale incompatibile con l’inerzia della p.a. e con la necessità, quindi, di una messa in mora della stessa da parte del privato, il quale è invece posto in grado di apprezzare concretamente il risultato dell’attività amministrativa alla quale è interessato e di assumere le eventuali iniziative del caso".
(19) L’opinione a favore di una considerazione differenziata di certi settori, dove implementare tecniche di degradazione legale e giudiziale incentrate (anche, ma non solo) sull’esiguità, è autorevolmente sostenuta, con particolare riferimento all’ambito del diritto penale complementare, da Donini, La riforma della legislazione penale complementare: il suo significato ‘costituente’ per la riforma del codice. (Riflessioni a margine di una ricerca), testo della relazione presentata al convegno di Macerata, aprile 1999, p. 33 del dattiloscritto.
(20) Così Fiore, Osservazioni in tema di clausole di irrilevanza penale e trattamento della criminalità bagattellare. A proposito di una recente proposta legislativa, in Critica del diritto n. 4/1998, p. 276.
(21) Nel contesto del generale dibattito sul futuro del diritto penale, e rispondendo alle tesi ‘neoretribuzioniste’ (Naucke) e ‘neoliberali’ (Hassemer) per un ritorno al Kernstrafrecht, è nota la presa di coscienza di Lüderssen che l’obiettivo di un diritto penale minimo vorrebbe dire il ritorno ad un diritto penale ‘di classe’ (Lüderssen, Abshaffen des Strfrechts?, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1995, pp. 391 ss., 11); gli accenti più significativi di questa posizione riecheggiano in un recente saggio di Marinucci-Dolcini, Diritto penale minimo e nuove forme di criiminalità, in RIDPP 1999, pp. 802 ss., 816. Nella dottrina italiana, il dibattito ha ricevuto la attenta mediazione di Donini, La riforma della legislazione penale complementare, cit., p. 24; non potendo in questa sede esprimere una opinione argomentata, a nostro parere sembra comunque più coerente la posizione di chi difende ex professo gli avamposti riduzionisti, rispetto ad un legislatore che continua a fare la voce grossa in sede di minaccia edittale per poi lasciare la deflazione in concreto davvero abbandonata a meccanismi di classe, come quelli che parametrano oggi più che mai l’accesso alle misure alternative alla detenzione anche dopo la imrovvida riforma di cui lala legge Simeone (l. 165/1998). L’inversione si risolve in un ipocrita anatopismo; diritto penale degli uguali, in astratto, afflittività solo per alcuni (gli emarginati) in concreto: del tutto condivisibile, dunque, la critica di Dolcini, Le misure alternative oggi: alternative alla detenzione o alternative alla pena?, in RIDPP, 1999, pp. 856 ss., 876.
(22) Oltre ai fatti di particolare tenuità già presi in considerazione in vari delitti contro la P.A. (es. art. 323 bis, c.p.), particolare rilievo assumono altre ipotesi, segnalate da Paliero, op. cit., pp. 664 ss (sul punto anche Donini, op. cit., p. 245, n. 78): danno patrimoniale di speciale tenità nei reati che offendono il patrimonio (art. 62 n. 4, c.p.); fatto di lieve entità nei delitti contro la personalità dello Stato (art. 311 c.p.); fatto di particolare tenuità nella ricettazione (art. 648 cpv., c.p.); partecipazione di minima importanza (art. 114 e 609-octies c.p.); diverse ipotesi sono presenti anche in sede di legislazione speciale (ove, a volte, a determinate soglie di esiguità è ancorata la stessa punibilità del reato), come ad esempio il fatto di lieve entità nella detenzione, cessione, ecc. di stupefacenti (art. 73, comma 5, DPR 309/1990); il danno patrimoniale di speciale tenuità nella bancarotta e nel ricorso abusivo al credito (art. 219 cpv. l. fall.); il fatto di lieve entità nella frode fiscale (art. 4, ult. comma, l. 516/1982); il fatto di lieve entità in materia di armi (art. 5 l. 895/1967). La possibile considerazione differenziata dell’offensività in concreto o di soglie di esiguità di determinate condotte come presupposti per la punibilità stessa trova oggi un ulteriore esempio nella clausola di offensività prevista al comma 2° dell’art. 172 del decreto legislativo n. 58/1998 (testo unico recante la disciplina dei mercati finanziari), ove appunto si prevede una espressa clausola che sottopone la punibilità della violazione della norma in materia di acquisto di azioni proprie (art. 132) alla verificazione di una concreta offesa per il bene tutelato dalla norma stessa: sul punto, v. Sgubbi (Le sanzioni, in AA.VV., La riforma delle società quotate, Atti del convegno di Santa Margherita Ligure del 13/14 giugno 1998, a cura di Bonelli e altri, pp. 293 ss., 295), il quale sottolinea ‘un interessante e promettente segnale di recupero della dimensione sostanziale del reato’,e di abbandono del modello sanzionatorio - consueto nella tutela di funzioni – in base al quale la fattispecie criminosa finisce con il consistere nella mera inosservanza del precetto extrapenale. Infatti, la violazione dell’art. 132 in materia di acquisto di azioni proprie o della società controllante è sì punita come tale: tuttavia, la punibilità è esclusa allorchè l’acquisto - pur effettuato in modo irregolare – sia stato compiuto con modalità non offensive per il bene tutelato dalla norma penale’.

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BIEN JURÍDICO Y DELITOS CONTRA LA ADMINISTRACIÓN PÚBLICA
Vittorio Manes

RESUMEN: La tesis de Manes consiste en concebir al bien jurídico no en una dimensión exclusivamente abstracta sino también individual, esto es, que tenga en cuenta tanto el peligro al buen funcionamiento e imparcialidad de la Administración pública como el daño causado al patrimonio de la misma. Como ejemplos de acogida de esta postura por la Corte Suprema de Casación cita, entre otros, los casos del delito de abuso de oficio y de omisión por actos de oficio. En otras figuras delictivas (malversación, corrupción, etc.), sin embargo, no se sigue esta tesis. ¿Qué opciones de reforma propone el autor? Al contrario que algunas propuestas de leyes italianas, dirigidas a ampliar el ámbito de punición del tipo penal, Manes aboga por la puesta en funcionamiento de instrumentos preventivos o sancionatorios pero de otra naturaleza (medidas de interdicción, mecanismos de control, etc.). El trabajo lo concluye abordando un tema de actual discusión en Italia, y es la necesidad de codificar un principio general de ofensividad del ilícito penal como límite externo del área de lo penalmente relevante, que Manes rechaza por entender que no tendría eficacia operativa. Igualmente aborda el problema de la exigüidad del hecho, esto es, un hecho lesivo pero de nivel tan exiguo o mínimo que pretende ser penalmente irrelante. Aquí el autor, en cambio, se muestra partidario de la codificación de una cláusula de exigüidad como causa de no punibilidad, que no se haría en sede de parte general sino como una cláusula ad hoc para cada disposición o sector de la disciplina.

PALABRAS CLAVES: Administración pública, malversación, cohecho, tráfico de influencias, bien jurídico, principio de ofensividad, principio de exigüidad

FECHA DE PUBLICACIÓN EN RECPC: 19 de febrero de 2000


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