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SUMARIO
1. L’esigenza di una concretizzazione del bene
giuridico
2. Le indicazioni interpretative suggerite
da alcune pronunce giurisprudenziali
3. Le riforme ‘pericolose’
4. Riforma dei delitti contro la P.A. e principio
di esiguità
1. L’ESIGENZA DI UNA CONCRETIZZAZIONE
DEL BENE GIURIDICO
Il dibattito sulla riforma dei delitti contro la
pubblica amministrazione è una costante della riflessione penalistica
attuale, non solo nell’ordinamento italiano.
Dall’emersione della corruzione come fenomeno ‘sistemico’,
alla sempre crescente considerazione delle patologie dell’azione amministrativa
in tutti i suoi aspetti (prevaricazioni, abusi della funzione, malversazioni,
omissioni dei doveri d’ufficio), le problematiche sono, tuttavia, quasi
esclusivamente inquadrate da una angolatura di politica criminale, e le
opzioni avanzate risentono di condizionamenti troppo spesso piegati ad
esigenze repressive; il che non consente una sempre adeguata ponderazione
delle peculiari esigenze dogmatiche della materia.
Tra queste, quella che fra tutte in via principale
dovrebbe guidare una riforma delle fattispecie penali a tutela della amministrazione
pubblica: la corretta individuazione degli interessi che si intendono tutelare,
e, dunque, il dibattito sul bene giuridico.
Proprio a questo aspetto sono dedicate queste riflessioni.
Il presupposto di partenza da cui, a mio parere,
si dovrebbero prendere le mosse può sembrare quasi paradossale:
in una materia che si impegna a tutelare l’articolarsi della funzione pubblica,
che si ripromette di assicurare conforme al ‘buon andamento e all’imparzialità’
- le aspettative istituzionali sull’agire degli apparati statali -, le
linee direttrici della riforma dovrebbero essere verso il progressivo abbandono
di una dimensione esclusivamente pubblicistica, astratta, del bene giuridico
(assunto come bene giuridico generico) e un corrispondente progressivo
guadagno di terreno a favore di una dimensione per quanto possibile individuale,
particolaristica dell’oggetto della tutela, ricostruito con tratti specifici
a seconda delle singole norme.
Dovrebbe cioè esser sempre più valorizzata
la differenza tra bene giuridico di categoria - oggetto giuridico ‘a bassa
definizione’ che spesso è nulla più di una parafrasi dei
criteri cui si vorrebbe improntare la stessa funzione amministrativa -,
e bene giuridico specificamente tutelato dalla singola norma, focalizzato
su un aspetto particolaristico e più concreto della tuela; in uno
sforzo che, in definitiva, proceda dall’universale al particolare.
Certo non occorre sottolineare i guadagni offerti
da una tale impostazione. Basti ricordare che una progressiva concretizzazione
del bene tutelato, riportato ‘a misura d’uomo’, segnerebbe il passaggio
da un’ottica formalistica, troppo spesso appiattita su principi generali
e onnicomprensivi (anche se valorizzati da un sicuro aggancio costituzionale)
(1) ad una ottica che, attraverso parametri più
tangibili, permetta di dare concreto rilievo ai diversi gradi dell’offesa.
Queste direttrici – che dovrebbero già ispirare
l’interpretazione delle fattispecie attuali – dovrebbero anche guidarne
una eventuale riforma, in prospettiva de iure condendo.
2. LE INDICAZIONI INTERPRETATIVE
SUGGERITE DA ALCUNE PRONUNCE GIURISPRUDENZIALI
L’esigenza di concretizzazione delle fattispecie
ove maggiormente emerge il ‘volto funzionale’ della tutela, sembra recentementente
aver raccolto confortanti consensi anche da parte della giurisprudenza
di legittimità.
Un primo esempio si è avuto nel delitto di
abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), dove la ricostruzione della fattispecie
secondo lo schema del reato di evento (il vantaggio patrimoniale o il danno
per il privato), e non più di reato di mera condotta (qualificata
dal dolo specifico di vantaggio o danno), ha portato la giurisprudenza,
almeno nei casi di abuso di danno - corrispondente per certi versi al delitto
di ‘Prevaricaciòn’ di cui all’art. 404 del Còdigo
Pénal spagnolo - a riconsiderare il bene giuridico in un’ottica
di plurioffensività, affiancando all’interesse pubblico al buon
andamento e alla trasparenza della p.a. il concorrente ‘interesse del privato
a non essere turbato nei suoi diritti dal comportamento illegittimo del
pubblico ufficiale’. Per tal via, la Suprema Corte è giunta a riconoscere
alla persona che subisce il danno la qualità di persona offesa
dal reato, con le conseguenti facoltà di diritto sostanziale
e processuale che sono peculiari attribuzioni di questa (2).
Anche in tema di omissione di atti d’ufficio (art.
328 c.p.) si registrano affermazioni giurisprudenziali volte a definire
l’oggetto della tutela valorizzando il profilo esterno della tutela
della funzione amministrativa, ossia il momento di contatto con la sfera
degli amministrati, chiamati dunque a svolgere un ruolo non più
di comparse ma di co-protagonisti. Una tale ricostruzione emerge in una
recente sentenza che ritiene inapplicabile la disciplina di cui all’art.
328, comma 2°, c.p. ai rapporti tra pubbliche amministrazioni, affermando
che "la norma (…) è finalizzata ad apprestare sostanziale tutela
all’interesse del privato cittadino che formalmente rivolga richiesta al
pubblico ufficiale (o all’incaricato di pubblico servizio) di adempimento
di un atto del suo ufficio e, comunque, di risposta per notiziare le ragioni
del ritardo, fissando un dato temporale (trenta giorni) e uno formale (richiesta
di forma scritta), collegati dalla ricezione della richiesta stessa da
parte della p.a." (3).
Anche in questa decisione, dunque, si assiste ad
uno sforzo di concretizzazione del bene istituzionale, sfuggendo ad una
ricostruzione astratta dello stesso e ad una conseguente interpretazione
formalistica della fattispecie.
Questo condivisibile trend verso una interpretazione
sostanzialistica della fattispecie non è pero costante, né
comune a tutte le fattispecie.
Esempi ondivaghi si rilevano ad esempio in tema
di peculato, dove se talvolta si abbraccia l’ottica della plurioffensività
(tutela sia del bene astratto buon andamento e imparzialità della
p.a., che del patrimonio della stessa) per escludere l’offensività
(o la tipicità stessa) della condotta di appropriazione di somme
esigue, altre volte si assegna alla stessa prospettiva istituzionale della
tutela un posto di primo piano per considerare irrilevante per la configurabilità
del reato l’ammontare della somma oggetto di appropriazione (4).
Anche in tema di corruzione si registrano alterne
vicende, che vedono spesso la giurisprudenza avallare una lettura del tutto
formalistica della fattispecie, in base alla quale anche la ricezione di
danaro svincolata da un preciso atto d’ufficio potrebbe costituire corruzione
punibile, perché comunque idonea a porre in pericolo il buon andamento
(nella corruzione propria) e l’imparzialità (nella corruzione impropria)
dell’amministrazione.
Ma una tale interpetazione, troppo lontana da una
concreta offensività degli illeciti in questione, comporta una regressione
della tutela sulla semplice ‘venalità della carica’, fino ad un
appiattimento del precetto sul mero divieto per il pubblico agente di accettazione
di denaro o utilità indebite.
Questo ultimo esempio ci permette di passare al
secondo punto, il problema delle opzioni di riforma da seguire, o quanto
meno, come vedremo, da scartare.
3. LE RIFORME ‘PERICOLOSE’
Anzitutto, in tema di corruzione non sembra condivisibile
l’opzione per un ulteriore allargamento della fattispecie, a più
riprese avanzato in sede di convenzioni internazionali e recepito anche
in seno a talune recenti proposte di legge italiane (5),
volte ad eliminare il requisito dell’atto d’ufficio, elemento di
tipicità essenziale per ricostruire il bene specificamente tutelato
in questa norma nel senso della tutela della efficienza e imparzialità
dell’azione amministrativa, presa in considerazione nella prospettiva dinamica
del suo concreto esercizio (6).
La estensione della fattispecie di corruzione alla
ricezione (o accettazione della promessa) di utilità indebite per
il semplice esercizio della funzione, o in considerazione della
stessa (come espressamente prevede l’art. 426 del Còdigo Pénal)
– scelta pur seguita dal legislatore tedesco in tema di corruzione nella
recente Gesetz zur Bekämfung der Korruption del 1997 - , significherebbe
optare per una tutela incentrata più sulla semplice venalità
della carica, della qualifica pubblicistica, che non dell’effettiva correttezza
dell’attività svolta.
Inoltre, una riforma del genere vorrebbe dire cercare
la soluzione del problema allargando l’area della rilevanza penale fino
a comportamenti di dubbio significato, lontani da un diritto penale del
fatto e pericolosamente vicini all’autore, da considerare riprovevole appunto
per il suo atteggiamento venale.
Così il legislatore dimostrerebbe, una volta
di più, una affezione quasi monomaniaca per lo strumento penale,
chiamato ad intervenire come protagonista principale, da cui si pretendono
prestazioni sempre più esose.
La logica è nota, e risponde al criterio
del ‘more of the same’; stessa terapia, ma più energica.
Si dimenticherebbe però che finora questa ‘terapia d’urto’ – più
simbolica che effettiva - ha dato pochissimi frutti, e che di fronte a
fenomeni che sempre più assumono una dimensione sistemica, la vera
svolta sarebbe una radicale inversione di rotta verso l’implementazione
di strumenti preventivi, o anche di tipo sanzionatorio, ma di altra natura
(misure interdittive, meccanismi di controllo effettivi, oggi affetti da
una inefficacia tragicomica, etc.) (7).
In definitiva, riprendendo uno spunto di Marinucci
(8), occorrerebe scongiurare una tecnica di costruzione
dell’illecito dove emerga il bene giuridico senza una precisa individuazione
delle modalità di lesione. E sicuramente una fattispecie di corruzione
costruita sul pagamento di indebito per l’esecizio della funzione rappresenterebbe
una norma a spettro totale svincolata da contrassegni di tipicità
tali da chiarire il profilo del bene giuridico che si vuole tutelare, e
dunque senza vera capacità selettiva.
Un problema per certi versi analogo è quello
che interessa la eventuale codificazione di una fattispecie di traffico
di influenze, norma sfuggente già a livello di oggettività
giuridica (9), e caratterizzata da condotte tipiche
troppo indeterminate per assicurare al bene giuridico una effettiva capacità
di selezione dell’area del penalmente rilevante. Basti pensare alla formulazione
degli artt. 428 ss. del Còdigo Penal, che assegnano rilevanza penale
alle condotte del pubblico agente (o del privato) che abusa anche solo
delle relazioni personali per ottenere un atto favorevole per sé
o per un terzo.
Con ciò non si vuole negare che il delitto
di ‘traffico di influenze’ possa avere una sua autonoma ratio essendi,
perché permetterebbe la repressione (ancora una volta a largo raggio)
di tutte le condotte di intermediazione illecita nell’esercizio della cosa
pubblica, in cui il soggetto interposto (il politico o il faccendiere)
non ricopra un ruolo pubblico rilevante ai fini dell’emanazione dell’atto.
Ma resta il pericolo non lieve di una possibile
strumentalizzazione processuale della norma, specie ove non vi sia la prova
del contributo nella stipulazione del patto corruttivo da parte del ‘mediatore’;
e la possibilità che anche una attività di semplice pressione
politica, magari riconnessa ad un vantaggio economico finale, sia idonea
ad integrare il tipo.
E forse neanche tale fattispecie basterebbe ad assicurare
l’effettiva repressione di tali comportamenti, perché pur a fronte
dell’ampia possibilità di elevare una capo di imputazione costruito
su una fattispecie così poco tassativa, residuerebbero difficoltà
probatorie di non poco momento, e resterebbero serie difficoltà
di pervenire ad una effettiva sentenza di condanna; il che è dimostrato,
ad esempio, proprio dalla esperienza spagnola, dove si contano pochissime
decisioni giurisprudenzali per tali titoli di reato.
Se queste riforme dovrebbero essere ponderate con
cautela, una riforma capace di fare chiarezza sul bene giuridico tuelato
dovrebbe invece interessare la fattispecie di concussione (art. 317 c.p.).
Si allude all’esigenza – ormai ineludibile – di
eliminare la condotta di induzione, riducendo il delitto al solo
fatto del pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei
suoi poteri, ‘costringe’ il privato a dare denaro o utilità non
dovute. Solo la restrizione della fattispecie alla sola condotta di costrizione,
infatti, permetterebbe di centrare il fulcro della tutela in una dimensione
maggiormente individualistica, che valorizzi il pregiudizio per la libera
autodeterminazione del singolo, così da giustificare una diversità
in termini di pena edittale tanto spiccata rispetto alla corruzione. Non
è un caso che la condotta di induzione (o di sollecitazione, per
usare il termine del legislatore spagnolo) nella disciplina penale degli
ordinamenti più vicini al nostro (Francia, Spagna, Germania) appartenga
all’area di tipicità della corruzione (o del coecho, nel
Còdigo Pénal); il che risolve in radice la problematica querelle,
tutta italiana, appunto, sulla ricerca dei confini ra corruzione e concussione
(10).
4. RIFORMA DEI DELITTI CONTRO
LA P.A. E PRINCIPIO DI ESIGUITÀ
La prospettiva di maggior concretizzazione del bene
giuridico tutelato in talune fattispecie a tutela della p.a. e la ricerca
di connotati di concreta offensività che permettano di abbandonare
la clausola omnibus del pericolo astratto coinvolge anche le problematiche
legate al c.d. pricipio di necessaria lesività e alla tematica,
diversa ed autonoma, dell’esiguità della condotta.
Attualmente, in Italia, è acceso il dibattito
sulla codificazione di principi, per lo più pensati in sede di ‘Parte
generale’, che valorizzino la dimensione sostanziale del reato. In particolare
si discute sulla necessità di codificare un generale principio di
(necessaria) offensività dell’illecito penale, come limite esterno
dell’area del penalmente rilevante, e corrispondenti adeguamenti interni
all’area del fatto tipico e offensivo, che stabiliscano la punibilità
dello stesso oltre la soglia della esiguità dell’offesa (di una
offesa, dunque, già esistente).
Il primo problema, quello del principio di offensività,
discute sulla stessa sussistenza, nel caso concreto, dell’an dell’offesa
arrecata con la condotta tipica, ed ha come punto di riferimento privilegiato
la categoria dei reati di pericolo astratto e/o presunto (11).
Il secondo aspetto della problematica, quello dell’esiguità
del fatto, ha come presupposto un fatto offensivo, ma di portata così
esigua da pretenderne l’irrilevanza penale.
L’oggetto privilegiato, com’è noto, sono,
in prima battuta, i reati bagattellari; e una clausola che dia rilievo
(pro reum) all’ ‘esiguità’ del fatto viene condivisibilmete
assunta come necessaria garanzia del soddisfacimento dell’istanza di sussidiarietà
a livello giudiziale (12).
E’ soprattutto questa seconda prospettiva che interessa
il campo oggetto di questa breve indagine, perché se è vero
che l’ ‘esiguità’ viene generalmente pensata come valvola di sfogo
per le offese bagattellari, la stessa è sicuramente possibile protagonista
anche nei casi di offese a beni talamente astratti, ‘macrodimensionati’,
che da un lato non permettono di stabilire alcun discrimen tra lesione,
pericolo concreto, pericolo astratto, dall’altro - pur non trattandosi
di reati strutturalmente bagattellari, ma di ipotesi di reato contraddistinte
da un ampio margine di variabilità – contemplano condotte, conformi
al tipo legale, che possono scendere fino a soglie di offensività
davvero marginali (tipicità e offensività, ma ridottissima).
In questi casi, una questione posta nella prospettiva
della carenza di offensività della condotta potrebbe essere, a mio
parere, mal posta. Perché, in realtà, un problema in termini
di offensività non si pone affatto. La problematica muove su piani
differenti.
Infatti, a fronte di beni giuridici istituzionali,
definiti attraverso un ‘programma di intenti’ più che con riferimento
a dati prepositivi, e necessariamente assunti in una dimensione astratta
(pensiamo ancora a ‘buon andamento e imparzialità della p.a.’),
la codificazione di un generale principio di offensività non produrrebbe
vantaggi considerevoli (13). Le condotte conformi
al tipo sono tutte astrattamente pericolose, e dunque offensive
in base al coefficiente di offensività richiesto dalla struttura
dei reati in questione, cioè il pericolo astratto (almeno nella
gran parte dei casi) (14); in altri termini, qui
è la natura del bene giuridico in oggetto che non permette una sicura
definizione della condotta in termini di concreta pericolosità,
ma richiama necessariamente un giudizio di pericolosità (solo) astratta.
Il principio di offensività, in poche parole,
non avrebbe efficacia operativa; resterebbe una definizione incapace di
esprimere (ed operare) una effettiva scelta politico-criminale.
La prospettiva più feconda sarebbe la seconda,
quella della esiguità.
Perché, come si anticipava, alcune condotte
– ancor più in una materia che costituisce l’appendice patologica
dell’esercizio della pubblica funzione, e che insiste dunque su una attività
lecita di base a volte di estrema complessità (basti pensare
alle violazioni di legge e regolamenti oggi suscettibili di configurare
‘abuso d’ufficio’) - possono ben assumere forma bagattellare; e preme sottolineare
che qui non si tratta di reati strutturalmente bagattellari, ma
fattispecie contraddistinte da un ampio margine di variabilità,
fino a soglie di offensività davvero marginali (tipicità
e offensività, ma estrema esiguità dell’offesa; così
in alcuni casi di abuso d’ufficio, o di omissione di atti d’ufficio, ma
anche nei casi di peculato o malversazione di somme ‘banali’ etc.,).
E garantire un intervento penale davvero frammentario
e sussidiario vuol dire prendere in considerazione livelli minimi di offensività
dove stabilire la soglia della punibilità (o della procedibilità)
(15).
Resta, tuttavia, un ulteriore problema, circa l’eventuale
collocazione (ed estensione) di una tale clausola, se in sede di parte
generale, come clausola generale appunto applicabile a tutte le fattispecie
di parte speciale, o invece prevedendo soluzioni differenziate per i diversi
settori della parte speciale del codice.
Entrambe le soluzioni possono sembrare percorribili.
Tuttavia, a mio parere, la codificazione di una
clausole generale di esiguità o di irrilevanza del fatto (sulla
scorta, ad esempio, dell’istituto della rinuncia alla pena, "Absehen
von Strafe" del § 60 StGB) costringerebbe il legislatore ad una
previa ridescrizione della parte speciale del codice in tutti quei casi,
e non sono pochi, in cui il bene giuridico è caratterizzato da una
notevole astrattezza, come, nel nostro caso, l’amministrazione della cosa
pubblica, la conduzione dell’economia, la gestione del mercato e così
via.
In questi casi, dove risulta difficile parametrare
l’offesa attraverso la quantificazione di un danno, di una lesione concreta,
perché l’illecito risulta appiattito sullo schema del pericolo astratto,
una clausola generale di esiguità incentrata prevalentemente sull’entità
dell’offesa al bene protetto, può riuscire difficilmente fruibile,
e dunque non particolarmente vantaggiosa.
Anche nei casi in cui a fianco di un bene istituzionale,
o funzionale, emerge un bene di carattere più tangibile, in una
dimensione di plurioffensività – per chi ammette ed accetta questa
già problematica categoria - una clausola generale di esiguità
non risolverebbe molto, giacchè occorrerebbe pur sempre decidere
a quali dei due beni dare rilevanza in concreto (16).
Il problema è noto: l’esempio, già accennato, del peculato
integrato da una appropriazione di una somma esigua è emblematico,
perché risolto dalla giurisprudenza in modo radicalmente diverso
a seconda del bene giuridico che si ritiene protagonista dell’offesa: si
considera configurato il reato se si ritiene che il bene protetto sia quello
– di rango esclusivamente pubblicistico e istituzionale – identificato
dai principi che informano l’azione amministrativa a buon andamento e imparzialità;
si perviene a soluzione opposta, negando la configurabilità dell’illecito,
se si ritiene che tra gli interessi protetti dalla norma un rilievo preminente
abbia anche il patrimonio della p.a., sicuramente non inciso da una appropriazione
scarsamente significativa.
Come alternativa ad una soluzione generalizzata,
potrebbe avanzarsi una diversa ipotesi.
Codificare una clausola ad hoc di esiguità
per singole disposizioni, o per singoli settori di disciplina, ancorata
non ad un generico riferimento all’irrilevanza dell’offesa, ma a specifici
aspetti della stessa con riferimento a singole disposizioni.
Una tale opzione potrebbe garantire due vantaggi:
a) anzitutto garantirebbe una sicura operatività in concreto
della clausola stessa;
b) in secondo luogo, pur essendo un profilo di estrema importanza,
contribuirebbe a chiarire quale interesse è tutelato in via specifica,
senza comode fughe in avanti verso un onnicomprensivo interesse di categoria,
capace di ricomprendere qualsiasi violazione anche meramente formale della
fattispecie tra le condotte offensive dei principi che si vogliono garantire
nel titolo in esame.
L’idea, peraltro, non è nuova, essendo già
stata avanzata in uno degli innumerevoli piani di riforma dei delitti contro
la p.a., perennemente allo stadio di work in progress.
Nel progetto di riforma della norma sull’abuso d’ufficio
proposto dalla Commissione Morbidelli, erano contenute una serie di disposizioni
comuni, tra le quali rientrava una causa di non punibilità per i
fatti di peculato, malversazione ai danni dello stato e abuso d’ufficio
a fini patrimoniali qualora il fatto non avesse cagionato, né fosse
idoneo a cagionare, un danno patrimoniale pubblico o privato di ammontare
superiore ad una determinata somma (nella specie di lire dieci milioni),
sempre che il danno medesimo fosse riparato per intero.
Un’altra disposizione dello stesso progetto considerava
non punibili i fatti di abuso d’ufficio fino a quando gli stessi non avessero
prodotto effetti esterni alla p.a. (17); considerazione
simile a quella raggiunta, motu proprio, dalla recente giurisprudenza
in tema di omissione di atti d’ufficio, che, come accennato, non ritiene
configurabile il fatto qualora il comportamento omesso non fosse destinato
ad avere una evidenza esterna, ma solo a scandire l’attività interna
della amministrazione (18).
Naturalmente, le ipotesi accennate hanno un valore
meramente esemplificativo, e il riferimento prescinde da un giudizio di
merito sulle stesse. Spetterebbe ad una meditata analisi sugli interessi
cui dare preminenza nelle specifiche ipotesi di reato, eventualmente riunite
in gruppi, il compito di individuare le ipotesi di esiguità dell’offesa
più degne di considerazione, definite già a livello legale,
come quelle incentrate sul profilo quantitativo dell’offesa o qualitativo
del fatto, cioè ‘agganciate’ a parametri fissi, oppure aperte ad
una ulteriore valutazione giudiziale, come quelle modulate su parametri
fluidi e ulteriormente individualizzati sulla condotta dell’autore individuale
(cioè attraverso elementi di maggior personalizzazione connessi
anche a comportamenti o condizioni personali dell’autore del fatto, etc.)
(19).
Ad una tale proposta potrebbe obiettarsi di risolversi
in un eccesso casistico (20), o persino in una ingiustificata
considerazione particolare di certe ipotesi, con conseguente, eventuale,
disparità di trattamento.
Tuttavia, non può non considerarsi come la
risoluzione di problemi così differenti a seconda dei beni giuridici
di riferimento non possa essere correttamente risolta attraverso l’impiego
di ‘clausole generali’, e richieda dunque una pur impegnativa considerazione
individualizzata; d’altronde, lo stesso legislatore del ’30, in tempi certo
diversi - e meno esposti (almeno per certi settori) alle critiche di Lüderssen
tese a stigmatizzare certe scelte differenziate e ‘riduzioniste’ come scelte
ideologiche a favore di un ‘diritto penale di classe’ (21)
- dimostra di aver considerato una tale prospettiva riconducendo, solo
in determinati (e forse troppo rari) casi, sensibili attenuazioni della
sanzione in ipotesi di speciale o particolare tenuità, lievità,
di minima importanza, etc. (22).
Inoltre, nella significativa ipotesi del danno patrimoniale
di particolare tenuità, la considerazione nella quale il legislatore
dimostra di tenere l’esiguità della condotta, è tale da assumere
la scarsa rilevanza dell’offesa come parametro di deflazione non solo della
sanzione penale, ma dello strumento penale in generale, anche, quindi,
sotto il profilo processuale; la circostanza dell’art. 62 n. 4 c.p. (insieme
alle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena diversa e alle
circostanze c.d. ad effetto speciale) è infatti l’unica circostanza
da computarsi per la determinazione della pena da considerarsi ai fini
dell’applicazione della disciplina delle misure cautelari (art. 278 c.p.p.)
e dell’arresto in flagranza di reato e fermo (art. 379 c.p.p. che rinvia
alla disposizione appena citata).
Dunque tale particolare considerazione del fatto
esiguo permette un duplice livello di deflazione, sia nella (e, oggi, limitatamente
alla) fase della commisurazione della pena, sia, più a monte, nella
inibizione del ricorso a determinati meccanismi processuali per fatti di
scarsa rilevanza; meccanismi dal costo sociale particolarmente elevato,
specie in termini di garanzia, ma anche particolarmente dispendiosi sotto
il profilo dei costi processuali (basti pensare ai procedimenti di convalida
e di garanzie incrociate predisposti a tutela della corretta esplicazione
dei poteri di polizia giudiziaria e della corretta applicazione delle misure
coercitive).
E, allora, in tempi in cui si invoca a gran voce
un ritorno alla frammentarietà dell’intervento penale, non si capisce
perché si possa ammettere la previsione di soglie di esiguità
cui ancorare la previsione di circostanze attenuanti speciali in più
settori del nostro codice penale e con significativi risvolti anche in
sede processuale - a volte frutto di una particolare considerazione, come
nell’ipotesi accennata - e non si possa invece prendere atto del fatto
che, una condotta caratterizzata da una offesa esigua, anche se in base
ad un giudizio necessariamente ex post, non assurge ad un livello
di meritevolezza tale da giustificare la punibilità in concreto.
Concludendo, i vantaggi, a mio parere riconducibili
ad una scelta settoriale sarebbero meritevoli di riflessione: al posto
che una risposta simbolica a problemi concreti, e diffusi, risposta che
in molti casi non garantirebbe considerevoli effetti deflattivi e alzerebbe
comunque il margine di discrezionalità alimentando - almeno a fronte
di beni giuridici connotati da plurioffensività - una maggiore disparità
di trattamento, la codificazione di clausole di esiguità decentrate
consentirebbe di raggiungere un duplice effetto senza dover passare per
una improbabile, quanto difficoltosa e necessaria, riforma della parte
speciale.
NOTAS
(1) In particolare, oggi più
che mai è viva l’esigenza di evitare - nella scelta del paradigma
su cui coniugare l’accertamento penale - fughe ‘verso l’alto’ (coperte
dal riparo di principi troppo generali) sollecitando invece una spinta
‘verso il basso’, guidata dalla trama di regole che dei principi generali
sono concretizzazione (e costituiscono l’appendice operativa dei principi
stessi); proprio nell’attuazione dei principi si gioca infatti la fondamentale
scelta politica del legislatore, che il giudice non può rimettere
in discussione attraverso una interpretazione per saltum che rimandi
ai principi stessi. Altrimenti, la stessa prerogativa del potere legislativo
sarebbe pregiudicata, e la divisione dei poteri ridotta a blasone di una
gloria trapassata. La Suprema Corte, d’altronde, ha recentemente dimostrato
sensibilità per tali considerazioni, dichiarando insuscettibili
di essere presi a criteri di valutazione della violazione di legge tipica
della riformata fattispecie di abuso d’ufficio i principi dell’art. 97
Cost., considerati troppo generali (perché principi, appunto, e
non regole: cfr. Cass. Sez VI, 4 dicembre 1998, Tosches, in Foro it.
1998, II, 390, con note di La Greca e Manes, ove si sottolinea, appunto
questa differenza).
(2) Cass. Sez. VI, 3 marzo 1999,
Inchingolo, in Guida dir. n. 15/1999, p. 57 ss., ove, infatti, si
riconosce al privato la legittimazione a proporre opposizione alla richiesta
di archiviazione del pubblico ministero.
(3) Cass. sez. VI, 30 novembre 1998,
Fusco, in Guida dir. n. 12/1999, pp. 77 ss, e precedenti citati
nella motivazione.
(4) Così Cass. 24 settembre
1996 n° 8647 in Guida dir. n.50/1996, ove si afferma che l’esiguità
della somma sottratta nel delitto di peculato non esclude il reato, perché
comunque sussisterebbe una lesione del buon andamento e imparzialità
della P.A. La Cassazione non ritiene dunque necessaria anche la lesione
del bene patrimonio, come affermato in precedenti decisioni che
affermavano l’irrilevanza penale di sottrazioni esigue; in questo caso,
dunque, la prospettiva è quella esclusivamente istituzionale.
(5) La spinta verso una estensione
della fattispecie di corruzione segue peraltro il trend segnato
dalle convenzioni internazionali in tema di corruzione, come la convenzione
dell’OECD per la lotta alla corruzione interazionale e la convenzione dell’Unione
europea contro la corruzione (sul punto cfr. Forti, Basic features of
the Legislation for Combating Corruption and Bribery in the Member States,
in corso di pubblicazione in Combatting Corruption in the European Union,
Atti del Convegno di Trier, dicembre 1998, a cura di Huber, Frosch, Trier,
1999; sul punto anche Huber, Il sistema tedesco di lotta alla corruzione
in comparazione con quelli di altri paesi europei,, in corso di pubblicazione
in RTDPE, 1 ss). Inoltre, anche nel recente 'Corpus iuris contenente
disposizioni penali per la tutela degli interessi finanziari dell'Unione
europea' si propone una definizione della fattispecie di corruzione estesa
fino a comprendere dazione (e accettazione) di danaro per 'un atto della
funzione o un atto nell'esercizio della funzione' (cfr. Verso
uno spazio giudiziario europeo, Corpus iuris,(a cura di Grasso),
Milano 1997, p. 58 ss.).
(6) Sulle problematiche relative
alla attuale svalutazione dell’atto d’ufficio nei delitti di corruzione,
anche con riferimento alle proposte di riforma che lo vorrebbero ‘elidere’,
ci permettiamo di rinviare ad un nostro precedente lavoro, La rilevanza
dell’atto d’ufficio nelle fattispecie di corruzione, in corso di pubblicazione
in RIDPP 1999.
(7) Ivi, § 9, ove si
tenta una disamina degli strumenti di una possibile strategia preventiva.
Sull’inefficacia dei controlli disciplinari, a più riprese denunciata
dalla stessa Corte dei Conti, si veda l’articolo di cronaca apparso sul
quotidiano La Repubblica, Venerdì 12 novembre 1999, In
servizio nei ministeri i tangentisti condannati, di M. Travaglio.
(8) Così Marinucci, Intervento
nel dibattito sulla Relazione della Commissione Ministreriale per la
riforma del codice penale (istituita con d.m. 1 ottobre 1998, e presieduta
dal Prof. Grosso), in seno al convegno ‘Pena fissa, pena minima, pena
massima: dal codice penale lucchese ai codici penali degli anni novanta
del XX secolo’, organizzato a cura del Prof. Vinciguerra, Padova, 22-23
ottobre 1999. Sui rapporti tra bene giuridico e formulazione della norma
incriminatrice, in generale, v. Marinucci/Dolcini, Corso di diritto
penale, vol. I, Milano 1999, pp. 391 ss.
(9) Opinione radicalmente opposta
nelle affermazioni emergenti dal dibattito parlamentare che precedette
la Ley Organica 9/1991, con la quale si introdussero nel precedente Codigo
Penal le fattispecie appunto di traffico di influenze e di uso di informazione
privilegiata:; in quella sede si affermò che la riforma era dettata
dall’esigenza di adeguare la tutela penale della Pubblica Amministrazione
alle esigenze costituzionali di imparzialità, trasparenza, efficacia
e servizio agli interessi generali come nuovi beni giuridici meritevoli
di tutela penale: cfr. Morales Prats/Rodriguez Puerta, Comentario del
Titulo XIX, Consideracion general, in AAVV, Comentarios al Nuevo
Codigo Penal, (dirigido por Quintero Olivares), Pamplona, 1996, pp.1769).
(10) D’altronde, lo stesso legislatore
dimostra di avere sempre meno fiducia in una tale definizione normativa
della condotta, assegnandole un posto limitatissimo e residuale anche nella
recente riforma dei delitti di violenza sessuale, delitti connotati da
un coefficiente di disvalore (e, conseguentemente, di meritevolezza di
tutela) sicuramente superiore rispetto alla concussione. Solo in ipotesi
particolari, previste al comma 2° dell’art. 609 bis c.p., connotate
da un obiettivo stato di inferiorità della vittima (‘inferiorità
fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto’) o dalla creazione
fraudolenta di una erronea rappresentazione della realtà oggettiva
da parte dell’offeso (tassativamente limitato ai casi di sostituzione di
persona), si assegna rilievo alla condotta di induzione, richiedendo
nel comportamento dell’agente una intensità sensibilmente inferiore
rispetto alla regola del comma 1°, che definisce la condotta dell’agente
nei termini certo più significativi e pregnanti, della costrizione
(‘con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità’). Sul presupposto
dell’eliminazione della condotta di induzione, un’ulteriore opzione meritevole
di considerazione è quella che propone una radicale abrogazione
della stessa fattispecie di concussione, giustificata sulla base della
sufficienza della tutela apprestata da altre norme, e segnatamente quella
dell’estorsione, eventualmente aggravata dall’ ‘abuso dei poteri inerenti
una pubblica funzione’, secondo l’art. 61 n. 9 c.p.
(11) La tematica dell’offensività
può essere considerata ormai un classico della riflessione penalistica
contemporanea, almeno a far data dalla fine degli anni ’50, da quando cioè,
la maturazione dei guadagni della c.d. concezione realistica del reato
ha portato alla definitiva focalizzazione del c.d. principio di necessaria
lesività nel prisma delle direttrici costituzionali: sul punto,
fondamentale, Bricola, Teoria generale del reato, in Noviss.
Dig. it., UTET, XIX, 1973, pp. 7 ss. (e ora anche in Scritti di
diritto penale, a cura di Canestrari e Melchionda, vol. I, Milano 1997,
pp. 539 ss.); di recente, per una ampia sintesi della questione, v. Riccardi,
I ‘confini mobili’ del principio di offensività, in IP, 1999,
pp. 711 ss., cui si rimanda per i riferimenti bibliografici e per una panoramica
sulle più interessanti pronunce della giurisprudenza, che dimostra
- pur a cadenze alternate – progressiva sensibilità verso la capacità
ermeneutica del principio. Come è noto, la problematica è
stata anche oggetto dei lavori della Commissione bicamerale per le riforme
costituzionali, che il 4 novembre 1997 ha licenziato un Progetto di riforma
costituzionale che nella complessa architettura dell’art. 129 prevedeva
anche l’introduzione del c.d. principio di necessaria offensività
dell’illecito penale: in merito, v. Donini, L’art. 129 del progetto
di revisione costituzionale approvato il 4 novembre 1997. Un contributo
alla progressione ‘legale’ prima che ‘giurisprudenziale’, dei principi
di offensività e di sussidiarietà, in Critica del diritto
1998, pp. 95 ss. (relazione tenuta nel seminario di Roma, 6 febbraio 1998,
seguita dagli interventi di Rossi, Fiandaca e Mazzacuva). Sulle stesse
problematiche è stata impegnata anche la Commissione Ministeriale
per la riforma del codice penale (v. la Relazione della Commissione
Ministeriale per la riforma del codice penale, citata alla n. 2, pubblicata
in RIDPP, 1999, pp. 600 ss).
(12) In merito a questa problematica,
e senza dubbio, la valorizzazione più compiuta del requisito dell’esiguità
si deve a Paliero (Minima non curat praetor, Padova, 1985, parte
IV, cap. II, pp. 653 ss.). Sul punto, cfr. anche Donini, Teoria del
reato. Una introduzione, Padova, 1996, pp. 238 ss., secondo il quale
"(…) Finchè non sarà possibile costruire tutti i reati su
basi di concreta pericolosità quanto meno della condotta ex ante,
dovendosi ricorrere a forme di astrazione del pericolo, i principi di proporzione
e sussidiarietà impongono di demandare almeno al giudice l’estromissione
non solo dei comportamenti provatamente inoffensivi, ma anche quelli di
estrema esiguità lesiva" (in ptc. p. 244).
(13) Considerazioni analoghe già
autorevolmente sostenute da Fiandaca, Intervento nel dibattito sull’art.
129 del Progetto di riforma costituzionale, cit. alla nota 12.
(14) Anche se, come si è
anticipato, il legislatore potrebbe impegnarsi in una descrizione maggiormente
vicina alla dimensione individuale-concreta, come, ad esempio – e pur con
tutte le riserve che possono muoversi al novellato testo dell’art. 323
c.p. – ha dimostrato di poter fare nella riforma dell’abuso d’ufficio.
(15) Non è questa la sede
per affrontare le diverse opzioni offerte per codificare una clasuola di
tal fatta, sostanzialmente riconducibili a due orientamenti, sintetizzati
nella Relazione della Commissione Ministeriale, citata (§§
1 e 2). Il primo suggerisce la valorizzazione della esiguità sotto
forma di causa di non procedibilità, sull’esempio dell’istituto
previsto nel sistema penale minorile, e reintrodotto dall’art. 27 comma
1 D.P.R. 22 settembre 1998, n. 448, che dispone la non procedibilità
sulla base della ‘tenuità del fatto’ e dell’ ‘occasionalità
del comportamento’. Un tale modello, già presente per la giustizia
penale ‘maggiore’ nel sistema penale tedesco ai §§ 153 e 153a
StPO in tema di archiviazione di ipotesi bagattellari, è ripreso
tra le modifiche processuali che vorrebbero accompagnare l’introduzione
del giudice monocratico di primo grado (disegno di legge C/4625; in senso
analogo già il progetto di riforma governativo mirante a introdurre
un nuovo art. 346-bis c.p.p. fra le cause di non procedibilità per
irrilevanza del fatto, riprodotto in Guida dir. n. 8/1998, p. 19 ). Il
secondo prevederebbe invece la codificazione di una generale causa di non
punibilità, che si ritiene maggiormente praticabile perché
– pur non avendo la stessa efficacia deflattiva, almeno in termini processuali
– garantirebbe maggiore compatibilità con il principio dell’obbligatorietà
dell’azione penale (art. 112 Cost.). Sul punto, ancora, Donini, L’art.
129 del progetto di revisione costituzionale, cit., § 3., pp.
109 ss., in ptc. nota 31.
(16) Non è un problema ermeneutico,
ma un problema politico. Sul punto, cfr. anche Donini, L’art. 129 del
progetto di revisione costituzionale, cit., pp. 113, 116.
(17) E’ indifferente, ai fini della
nostra breve indagine, la qualificazione che possa darsi di queste due
ipotesi: entrambe possono essere considerate condizioni che fondano la
punibilità ovvero mere cause di non punibilità. A nostro
parere, ipotesi come queste sarebbero tecnicamente da inquadrarsi come
condizioni fondanti la punibilità, data la intrinseca inerenza all’offesa,
e il collegamento funzionale (anche se non soggettivo) con la lesività
del fatto; sulla solo relativa fungibilità tra le due opzioni, cfr.
ancora Donini, op. ult. cit., pp. 115-120.
(18) Sempre in tema di omissione
di atti d’ufficio, e in una prospettiva analoga, volta a dare rilievo anche
al profilo sostanziale dell’offesa, cfr. anche Cass. 11 dicembre 1998,
n. 12977, Concu, in Riv. Pen. 1999, 41 ss. : "Ai fini della configurabilità
del reato di rifiuto di atti d’ufficio, nell’ipotesi prevista dall’articolo
328 co. 2° c.p., occorre che l’atto d’ufficio non compiuto ed in relazione
al quale non vengano fornite in termini di legge, a specifica richiesta
dell’interessato, le ragioni del ritardo, sia un atto dovuto, e quindi
idoneo ad esprimere utilmente, e non in modo ultroneo e superfluo, la posizione
della p.a. nel rapporto con il privato. Ne consegue che non ogni richiesta
di atto da parte del privato è idonea ad attivare il meccanismo
che può dar luogo alla configurabilità del reato de quo,
dovendosi tale idoneità riconoscere solo a quelle richieste che
siano funzionali ad un effettivo e doveroso dinamismo della p.a., si estrinsechi
esso in atti facoltativi, vincolati, o comportanti una certa discrezionalità,
sempre che trattisi di atti costituenti comunque espressione di un preciso
dovere legale del pubblico ufficiale o dell’i.d.p.s. Il reato è
poi comunque da escludere quando – come nel caso della richiesta di accesso
a documenti disciplinata dall’art. 25 della l. n. 241/1990 – la mancata
risposta alla richiesta del privato nel medesimo termine previsto dalla
norma penale (30 gg), dia luogo a silenzio rifiuto perché quest’ultimo
equivale, sia pure per presunzione, al compimento dell’atto e viene comunque
a determinare una situazione concettuale incompatibile con l’inerzia della
p.a. e con la necessità, quindi, di una messa in mora della stessa
da parte del privato, il quale è invece posto in grado di apprezzare
concretamente il risultato dell’attività amministrativa alla quale
è interessato e di assumere le eventuali iniziative del caso".
(19) L’opinione a favore di una
considerazione differenziata di certi settori, dove implementare tecniche
di degradazione legale e giudiziale incentrate (anche, ma non solo) sull’esiguità,
è autorevolmente sostenuta, con particolare riferimento all’ambito
del diritto penale complementare, da Donini, La riforma della legislazione
penale complementare: il suo significato ‘costituente’ per la riforma del
codice. (Riflessioni a margine di una ricerca), testo della relazione
presentata al convegno di Macerata, aprile 1999, p. 33 del dattiloscritto.
(20) Così Fiore, Osservazioni
in tema di clausole di irrilevanza penale e trattamento della criminalità
bagattellare. A proposito di una recente proposta legislativa, in Critica
del diritto n. 4/1998, p. 276.
(21) Nel contesto del generale dibattito
sul futuro del diritto penale, e rispondendo alle tesi ‘neoretribuzioniste’
(Naucke) e ‘neoliberali’ (Hassemer) per un ritorno al Kernstrafrecht,
è nota la presa di coscienza di Lüderssen che l’obiettivo di
un diritto penale minimo vorrebbe dire il ritorno ad un diritto penale
‘di classe’ (Lüderssen, Abshaffen des Strfrechts?, Suhrkamp,
Frankfurt a. M., 1995, pp. 391 ss., 11); gli accenti più significativi
di questa posizione riecheggiano in un recente saggio di Marinucci-Dolcini,
Diritto penale minimo e nuove forme di criiminalità, in RIDPP
1999, pp. 802 ss., 816. Nella dottrina italiana, il dibattito ha ricevuto
la attenta mediazione di Donini, La riforma della legislazione penale
complementare, cit., p. 24; non potendo in questa sede esprimere una
opinione argomentata, a nostro parere sembra comunque più coerente
la posizione di chi difende ex professo gli avamposti riduzionisti,
rispetto ad un legislatore che continua a fare la voce grossa in sede di
minaccia edittale per poi lasciare la deflazione in concreto davvero abbandonata
a meccanismi di classe, come quelli che parametrano oggi più che
mai l’accesso alle misure alternative alla detenzione anche dopo la imrovvida
riforma di cui lala legge Simeone (l. 165/1998). L’inversione si risolve
in un ipocrita anatopismo; diritto penale degli uguali, in astratto, afflittività
solo per alcuni (gli emarginati) in concreto: del tutto condivisibile,
dunque, la critica di Dolcini,
Le misure alternative oggi: alternative
alla detenzione o alternative alla pena?, in RIDPP, 1999, pp. 856 ss.,
876.
(22) Oltre ai fatti di particolare
tenuità già presi in considerazione in vari delitti contro
la P.A. (es. art. 323 bis, c.p.), particolare rilievo assumono altre ipotesi,
segnalate da Paliero, op. cit., pp. 664 ss (sul punto anche Donini,
op. cit., p. 245, n. 78): danno patrimoniale di speciale tenità
nei reati che offendono il patrimonio (art. 62 n. 4, c.p.); fatto di lieve
entità nei delitti contro la personalità dello Stato (art.
311 c.p.); fatto di particolare tenuità nella ricettazione (art.
648 cpv., c.p.); partecipazione di minima importanza (art. 114 e 609-octies
c.p.); diverse ipotesi sono presenti anche in sede di legislazione speciale
(ove, a volte, a determinate soglie di esiguità è ancorata
la stessa punibilità del reato), come ad esempio il fatto di lieve
entità nella detenzione, cessione, ecc. di stupefacenti (art. 73,
comma 5, DPR 309/1990); il danno patrimoniale di speciale tenuità
nella bancarotta e nel ricorso abusivo al credito (art. 219 cpv. l. fall.);
il fatto di lieve entità nella frode fiscale (art. 4, ult. comma,
l. 516/1982); il fatto di lieve entità in materia di armi (art.
5 l. 895/1967). La possibile considerazione differenziata dell’offensività
in concreto o di soglie di esiguità di determinate condotte come
presupposti per la punibilità stessa trova oggi un ulteriore esempio
nella clausola di offensività prevista al comma 2° dell’art.
172 del decreto legislativo n. 58/1998 (testo unico recante la disciplina
dei mercati finanziari), ove appunto si prevede una espressa clausola che
sottopone la punibilità della violazione della norma in materia
di acquisto di azioni proprie (art. 132) alla verificazione di una concreta
offesa per il bene tutelato dalla norma stessa: sul punto, v. Sgubbi (Le
sanzioni, in AA.VV., La riforma delle società quotate,
Atti del convegno di Santa Margherita Ligure del 13/14 giugno 1998, a cura
di Bonelli e altri, pp. 293 ss., 295), il quale sottolinea ‘un interessante
e promettente segnale di recupero della dimensione sostanziale del reato’,e
di abbandono del modello sanzionatorio - consueto nella tutela di funzioni
– in base al quale la fattispecie criminosa finisce con il consistere nella
mera inosservanza del precetto extrapenale. Infatti, la violazione dell’art.
132 in materia di acquisto di azioni proprie o della società controllante
è sì punita come tale: tuttavia, la punibilità è
esclusa allorchè l’acquisto - pur effettuato in modo irregolare
– sia stato compiuto con modalità non offensive per il bene tutelato
dalla norma penale’.
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BIEN JURÍDICO Y DELITOS CONTRA
LA ADMINISTRACIÓN PÚBLICA
Vittorio Manes
RESUMEN: La tesis de Manes consiste en concebir al bien jurídico no en una dimensión exclusivamente abstracta sino también individual, esto es, que tenga en cuenta tanto el peligro al buen funcionamiento e imparcialidad de la Administración pública como el daño causado al patrimonio de la misma. Como ejemplos de acogida de esta postura por la Corte Suprema de Casación cita, entre otros, los casos del delito de abuso de oficio y de omisión por actos de oficio. En otras figuras delictivas (malversación, corrupción, etc.), sin embargo, no se sigue esta tesis. ¿Qué opciones de reforma propone el autor? Al contrario que algunas propuestas de leyes italianas, dirigidas a ampliar el ámbito de punición del tipo penal, Manes aboga por la puesta en funcionamiento de instrumentos preventivos o sancionatorios pero de otra naturaleza (medidas de interdicción, mecanismos de control, etc.). El trabajo lo concluye abordando un tema de actual discusión en Italia, y es la necesidad de codificar un principio general de ofensividad del ilícito penal como límite externo del área de lo penalmente relevante, que Manes rechaza por entender que no tendría eficacia operativa. Igualmente aborda el problema de la exigüidad del hecho, esto es, un hecho lesivo pero de nivel tan exiguo o mínimo que pretende ser penalmente irrelante. Aquí el autor, en cambio, se muestra partidario de la codificación de una cláusula de exigüidad como causa de no punibilidad, que no se haría en sede de parte general sino como una cláusula ad hoc para cada disposición o sector de la disciplina.
PALABRAS CLAVES: Administración pública, malversación, cohecho, tráfico de influencias, bien jurídico, principio de ofensividad, principio de exigüidad
FECHA DE PUBLICACIÓN EN RECPC: 19 de febrero de 2000
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