Revista
Electrónica de Ciencia Penal y Criminología
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RECPC 02-r1 V.O. (2000)
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ISTITUTI,
MODALITÀ E TENDENZE NEL SISTEMA DELL’ESECUZIONE PENALE ITALIANA:
ELEMENTI PER UN CONFRONTO CON L’ESPERIENZA SPAGNOLA
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Domenico Arena
Subdirector de la prisión "Porta Coelli" de Roma
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la traducción al castellano
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SUMARIO:
1. Premessa e considerazioni generali
2. Il trattamento penitenziario
3. Il laboro dei detenuti
4. Considerazione conclusive
1.- Premessa
e considerazioni generali
Gentilissimi ospiti, vorrei anzitutto ringraziarVi dell’onore che mi avete
fatto invitandomi a partecipare ai lavori di questo Convegno, ed – al tempo
stesso – pregarvi di portare pazienza se il mio intervento poco potrà
aggiungere da un punto di vista scientifico a quanto qui si produce. In
realtà io sono un manovale del Diritto, un operatore che –per collocazione
istituzionale– si trova prevalentemente a fare i conti con la problematica
dell’effettività della norma, della sua efficacia quotidiana. E
se questo non può, indubbiamente, essere disgiunto da una riflessione
teorica quanto più accurata possibile sulla natura, il fondamento,
la posizione sistematica degli Istituti giuridici che la pratica penitenziaria
si trova ad affrontare ed applicare; ciò nondimeno, non sarebbe
da parte mia intellettualmente onesto non confessarVi che l’entità
di una tale riflessione è spesso insufficiente, soverchiata dall’urgenza
delle cose, dall’agitarsi delle fattispecie –per così dire- in un
movimento talvolta disordinato e convulso.
Credo
perciò che, se un piccolo contributo posso offrire a questa riflessione,
esso debba necessariamente avere come premessa un dato sorprendente e,
per taluni versi, allarmante: ovverosia la scarsa rispondenza tra previsioni
normative e realizzazioni pratiche, nel sistema dell’esecuzione penale
italiano contemporaneo. Ciò accade, paradossalmente, nella regione
del Diritto dove più penetrante si fa il precetto della norma, sino
al punto di prevedere, storicamente, il massimo grado di sofferenza per
la sua violazione: la perdita della libertà personale e, in tempi
fortunatamente oramai remoti, addirittura la perdita della vita. Ora, credo
sia necessario riflettere sul fatto che, proprio nella fase della esecuzione
della pena, baluardo estremo posto a tutela dell’effettività della
norma, più consistente tende a farsi la distanza tra l’Istituto
giuridico così come pensato dal legislatore e la sua concreta applicazione.
Questo tipo di riflessione è, del resto, anche alla base dello sforzo
che ha condotto all’elaborazione del nuovo regolamento di attuazione della
Legge penitenziaria italiana, la L. 354 del 1975. Il Regolamento – che
a differenza della legge, viene predisposto direttamente dal governo ed
approvato con Decreto del Presidente della Repubblica, costituendo così
uno degli esempi classici di normazione secondaria – andrà a sostituire,
presumibilmente entro la fine dell’anno, quello attualmente vigente, approvato
con decreto del Presidente della Repubblica n° 431 del 1976. Rispetto
al tema della effettività, un intervento di normazione secondaria
assume peraltro una importanza fondamentale, essendo potenzialmente idoneo
a spezzare il circolo perverso attualmente vigente tra leggi virtuose ed
illuminate e prassi distorte e contraddittorie.
"(…) L’inadeguatezza alla legge del carcere reale non può ancora
a lungo essere accettata” (pag. 5): sono testuali parole della relazione
governativa di accompagnamento alla bozza finale del Nuovo Regolamento;
si tratta in buona sostanza di dare attuazione alla norma costituzionale
dell’art. 27, la quale disegna l’esecuzione penale come tesa alla rieducazione
e risocializzazione del reo. A livello di norme fondamentali, non vi è
dunque dubbio alcuno che la concezione retributiva della scuola classica
penale è stata oramai superata da parecchi decenni, in questo accogliendo
con coerenza sistematica anche le numerose direttive e raccomandazioni
della Comunità Europea.
Il regolamento opera su diverse direttrici, in alcuni casi limitandosi
ad un intervento apparentemente poco incisivo di mera “razionalizzazione”,
omogeneizzando prassi differenti all’interno degli Istituti Penitenziari,
tali da configurare sostanzialmente differenti tipi concreti di esecuzione
penale sullo stesso territorio nazionale. In altre occasioni, la razionalizzazione
introduce vere e proprie modifiche normative, limitando spazi di discrezionalità
amministrativa o eliminando limitazioni alla concessione di determinati
benefici. E’, ad esempio, quanto accade in tema di colloqui con le famiglie
da parte dei reclusi, o, ancora in tema di possibilità per i detenuti
di disporre di nuovi strumenti di lavoro e di studio, quali i personal
computer. Si tratta, in questi casi, di interventi normativi rispondenti
alle “Regole Minime del Consiglio d’Europa” sulla “costante evoluzione
degli standard qualitativi” in ambiente penitenziario.
Una terza tipologia di interventi è invece volta al riconoscimento
di veri e propri diritti, precedentemente non contemplati: è quanto
accade, ad esempio, in tema di assistenza sanitaria o, ancora, di trattamento
delle detenute madri e dei loro bambini.
Per esigenze di sintesi, prenderò in esame, in questa sede, due
temi che mi sembrano di grande importanza nel concreto svolgersi dell’esecuzione
penale ed, al tempo stesso sufficientemente paradigmatici delle problematiche
che pervadono complessivamente il tema in questione: il trattamento penitenziario
ed il lavoro dei detenuti.
2. Il Trattamento penitenziario
“Il
trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve
assicurare il rispetto della dignità della persona. (…) Negli istituti
devono essere mantenuti l’ordine e la disciplina. Non possono essere adottate
restrizioni non giustificabili con le esigenze predette o, nei confronti
degli imputati, non indispensabili ai fini giudiziari. (…) Il trattamento
degli imputati deve essere rigorosamente informato al principio che essi
non sono considerati colpevoli sino alla condanna definitiva. Nei confronti
dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo
che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento
sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio
di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti.”
L’art. 1
della legge Penitenziaria individua, in realtà, due differenti tipologie
di trattamento penitenziario: una prima, comune a tutte le persone ristrette,
che potremmo più opportunamente definire “regime penitenziario”
costituita dall’insieme delle norme che disegnano la mappa delle situazioni
giuridiche soggettive dei reclusi nei confronti dell’amministrazione penitenziaria:
diritti soggettivi, interessi legittimi, soggezioni, facoltà, oneri.
Una seconda
tipologia è, viceversa, costituita da quello che , più propriamente,
è il trattamento c.d. “rieducativo” ed ha per ambito di applicazione
soggettiva i “condannati con sentenza definitiva” e gli “internati” secondo
la lettera della legge.
Quanto alla
prima categoria, nulla quaestio: è condannato colui che ha
a proprio carico sentenza divenuta irrevocabile o per mancato esperimento
di gravami, o per avere percorso l’intero
iter dei due gradi di
giudizio di merito e/o l’eventuale pronuncia di legittimità da parte
della Suprema Corte di Cassazione.
La categoria
degli internati è invece costituita da coloro che, non essendo stati
ritenuti responsabili della commissione di reati (o avendo già scontato
la pena per il reato prevista e irrogata) sono assoggettati non ad una
pena ma ad una misura di sicurezza detentiva, avendo dato adito – con il
proprio comportamento – ad un giudizio di pericolosità sociale da
parte dell’organo giudiziario. Si tratta del cosiddetto “doppio binario”
(pena – misura di sicurezza), vero e proprio strappo dell’ordinamento giuridico
liberale, residuo di oscuri periodi di segregazione per un giudizio sulla
persona piuttosto che sul fatto. La gran parte degli internati risiede
attualmente, negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, veri e propri manicomi
criminali sopravvissuti anche alla legislazione abrogativa dell’istituzione
psichiatrica totale, approvata in Italia con la legge 180 del 1978.
Ora, in
tema di trattamento rieducativo, alcuni dati di fatto devono essere posti
nella dovuta evidenza.
Il primo
si riferisce alla massiccia presenza, nelle carceri italiane, di detenuti
in attesa di giudizio, dunque non assoggettabili alla gamma degli interventi
educativi. Tale presenza è stata, sino al 1995, ben oltre la percentuale
del 50%. Ciò si deve, in misura pressoché esclusiva, alla
eccessiva durata dei processi penali nel nostro ordinamento: a tale proposito,
vanno facendosi ben più che sporadiche le pronunce della Corte di
Giustizia europea che, stigmatizzando l’eccessivo ricorso alla custodia
cautelare da parte del sistema penale italiano, configurano la presenza
di veri e propri casi di “ingiusta detenzione”. Il tema è stato
anche oggetto di attenzione da parte del Comitato Europeo per la prevenzione
della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti.
Va poi registrata
la presenza, altrettanto massiccia, nei penitenziari italiani, di detenuti
extracomunitari, rispetto ai quali si propongono particolari problematiche
di comunicazione, a partire da una difficoltà linguistica, sino
a giungere alla scarsa comunicabilità di codici etici e comportamentali
spesso sideralmente distanti. E’ intuitivo come su tale tipologia di detenuti
un intervento “ordinario”, calibrato su un’utenza italiana o, comunque
di cultura europea rischi di essere assolutamente inefficace. Non si tratta
di tema di poco momento, se solo si pensa che la percentuale di tale presenza
si aggira – mediamente – sul 40% delle persone recluse.
Infine,
va registrata la presenza – quantificabile intorno al 30% - di reclusi
tossicodipendenti. Tale ultimo dato si rivela, sotto molteplici profili,
particolarmente allarmante. In primo luogo, va registrato un primo tema
riguardante la stessa sicurezza all’interno degli Istituti: l’accoglienza
e la gestione del detenuto tossicodipendente, delle sue crisi di astinenza
da sostanza stupefacente ingenera una serie di problemi di difficilissima
soluzione, legati – in prima battuta – al quotidiano tentativo di introduzione
di sostanze stupefacenti all’interno del carcere. Addirittura si registrano
diversi casi di persone che deliberatamente si fanno arrestare per reati
minori, nel tentativo di introdurre all’interno delle carceri massicce
quantità di stupefacenti. Inoltre, anche in questo caso, rischia
di risultare inefficace un intervento compiuto da personale non adeguatamente
qualificato sulla specifica problematica della tossicodipendenza.
Questa ultima
considerazione mi consente di introdurre il tema relativo al personale
penitenziario specificamente adibito all’effettuazione di interventi rieducativi
sui condannati ed internati: è quella che viene definita “area del
Trattamento”. Essa è costituita, in primo luogo, dalla figura professionale
dell’educatore, i cui compiti sono, al tempo stesso, di progettazione,
coordinamento e realizzazione degli interventi sull’intera popolazione
detenuta e sul singolo recluso: accanto ad essi, alla figura dell’educatore
sono demandati incarichi relativi alla predisposizione di relazioni ed
informazioni relative all’evolversi della personalità del detenuto,
da comunicarsi all’autorità giudiziaria da cui lo stesso detenuto
dipende, vale a dire – per quanto concerne condannati ed internati – al
magistrato di sorveglianza. Ebbene, oggi in Italia, su una popolazione
che si aggira sui 52.000 detenuti, sono più o meno cinquecento gli
educatori in servizio, con un rapporto operatore/detenuto che si aggira
attorno alla proporzione di uno a 150. Nessun educatore è stato
assunto da meno di dodici anni, essendo da tale periodo che non si bandiscono
più concorsi per questa figura professionale. A tali concorsi si
accede con il diploma della scuola secondaria, non essendo previsto tra
i requisiti né la laurea, né specifica specializzazione in
discipline pedagogiche.
La disciplina
normativa relativa ai contenuti degli interventi trattamentali, prevista
all’art. 15 della legge penitenziaria contiene scarne indicazioni: “Il
trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi
principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività
culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il
mondo esterno e con la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo
casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato
il lavoro. Gli imputati sono ammessi, a loro richiesta, a partecipare ad
attività educative, culturali e ricreative e, salvo giustificati
motivi o contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria, a svolgere
attività lavorativa o di formazione professionale, possibilmente
di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione
giuridica.”
Escluso
il tema del lavoro, di cui tratteremo tra poco, è da rilevare la
genericità – per un verso delle indicazioni contenute nella norma
- ; d’altra parte è forse opportuna una riflessione circa lo scarso
valore pratico dell’indicazione relativa alla religione , forse non più
del tutto aderente ad una realtà così religiosamente frammentata
quale quella attualmente presente nelle carceri italiane e, credo, europee.
Ciò non significa, come è evidente, una negazione del diritto
di professare la propria confessione da parte del singolo detenuto, che
viceversa deve essere garantito con la massima intensità ed energia;
più semplicemente si ha l’impressione della inidoneità di
tale professione di fede a costituire elemento del trattamento, in virtù
della sua appartenenza alla sfera più intima e privata del singolo.
Secondo
il dettato normativo vigente ogni intervento trattamentale deve prendere
le mosse da un’attività di “osservazione scientifica della personalità”
(art. 27 Regolamento es. vigente) condotta dall’équipe detta appunto
di osservazione e trattamento, la quale è composta dal Direttore
dell’Istituto, dall’educatore, dall’assistente sociale e dallo psicologo.
In aderenza con il dettato della legge di smilitarizzazione della polizia
penitenziaria (l.395/1990), che all’art. 5 assegna agli appartenenti al
Corpo di polizia compiti di collaborazione nell’opera trattamentale, alle
riunioni dell’équipe partecipa anche un rappresentante della Polizia
stessa.
L’organismo
così disegnato, dopo avere proceduto all’ ”acquisizione di dati
giudiziari e penitenziari, biologici, psicologici e sociali e alla loro
valutazione con riferimento al modo in cui il soggetto ha vissuto le sue
esperienze e alla sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi
del trattamento” formula un “programma individualizzato di trattamento,
il quale è compilato nel termine di nove mesi”.
Ebbene,
si tratta di uno dei punti in cui più grande appare la distanza
tra quanto previsto e quanto effettivamente realizzato. In realtà,
la percentuale di piani di trattamento elaborati secondo la normativa ed
approvati dal magistrato di sorveglianza, come previsto dalla legge, è
assolutamente irrisoria rispetto al numero dei condannati e degli internati.
Solitamente si procede così come prescritto solo nei casi in cui
il programma di trattamento preveda l’esperimento di misure esterne, quali
il lavoro extracarcerario o la fruizione di permessi premio.
Basti pensare,
a questo proposito, che il nuovo regolamento si limita a modifiche di poco
momento, prevedendo – in buona sostanza – un meccanismo di continuità
nell’opera trattamentale anche allorquando il detenuto venga trasferito
da carcere a carcere, continuità a tutt’oggi assente, stante la
mancata esecuzione dell’art. 26 che prevede la compilazione di una cartella
personale del detenuto che lo segua all’interno dei suoi spostamenti nel
sistema penale.
Viceversa
nella bozza di nuovo regolamento, non vi è traccia di modifiche
sostanziali sui contenuti del trattamento e ciò sulla scorta della
considerazione, contenuta nella relazione illustrativa predisposta dal
Governo, secondo la quale “” il regolamento di esecuzione non può
dire (a questo proposito: N.d.A.) molto di più di quanto
non dica il testo vigente. Il problema qui non è rappresentato dalla
normativa, ma dalla sua applicazione, ancora incompleta per le povertà
organizzative attuale della amministrazione penitenziaria.”
3. Il lavoro dei detenuti
Uno
degli elementi fondamentali del trattamento è costituito, come abbiamo
visto, dalla attività lavorativa da parte dei detenuti. L’argomento
si presenta tanto interessante quanto intricato, sotto molteplici profili.
Una prima distinzione va compiuta tra lavoro c.d. “intramurario” ed “extramurario”.
Se per il secondo il problema riguarda quasi esclusivamente il reperimento
di imprese ed enti disposti ad assumere, in un Paese che oggi presenta
un tasso medio di disoccupazione del 12%, alle proprie dipendenze persone
sottoposte a misure di carattere penale; per quanto riguarda il tema dei
lavori all’interno del carcere qualche ulteriore precisazione si impone.
Nell’assetto
tradizionale degli equilibri all’interno del carcere, l’assegnazione dei
detenuti ai c.d. “lavori domestici” è prevalentemente appannaggio
della polizia penitenziaria, che usa tale potere per garantirsi informazioni
sugli umori, le intenzioni, i progetti all’interno delle sezioni detentive.
Ciò, se d’un lato può accrescere i tassi di sicurezza all’interno
dell’Istituto, aggirando il tradizionale muro di omertà delle persone
recluse nei confronti dello staff carcerario, comporta d’altra parte una
serie di conseguenze negative riconducibile essenzialmente a tre ordini
di problemi.
In primo
luogo, una tale gestione della risorsa del lavoro, rischia sostanzialmente
di svilire la valenza rieducativa del lavoro stesso, non più concepito
come uno strumento per un reale e convincente percorso di cambiamento,
ma viceversa come una ricompensa per la delazione pura e semplice. Questa
osservazione, che qui – per esigenze di sintesi – non può essere
adeguatamente sviluppata, chiama peraltro in causa la tematica complessa
e delicata delle risposte che l’Istituzione stato mette in campo di fronte
al fenomeno della delazione, tema assai generale che in Italia ha visto
e vede tuttora oscillazioni significative nelle scelte di politica criminale,
a seconda del momentaneo prevalere di esigenze di sicurezza sociale o di
trasparenza e coerenza nel rapporto tra Stato e singolo.
Va inoltre
rilevato come la crescita della sicurezza carceraria conseguente a tale
gestione della risorsa-lavoro all’interno degli Istituti sia – in realtà
– più apparente che reale. Uno dei primi messaggi – se non il primo
in assoluto–che viene trasmesso a chi entra nel penitenziario per la prima
volta è che non bisogna mai confidarsi con i detenuti che lavorano,
ai quali non rimane dunque che raccontare chiacchiere irrilevanti, se non
addirittura frutto di pura fantasia.
Infine,
questo modello di gestione, rischia addirittura di produrre – paradossalmente
– effetti assolutamente opposti rispetto a quelli desiderati. In altri
termini, è più facile che il detenuto c.d. lavorante, considerato
dalla polizia uomo di fiducia, raccolga informazioni sull’organizzazione
dello staff, piuttosto che su quella dei compagni di detenzione e, di conseguenza,
sia in grado di disporre il flusso comunicativo nella direzione inversa
rispetto a quella prevista, non più dai ristretti allo staff, ma
– viceversa – dall’istituzione ai ristretti.
Alla luce
di queste osservazioni, non vi è dubbio che la recente formulazione,
all’interno dell’ordinamento penitenziario, dell’art. 20 (avvenuta con
la legge n° 296 del 1993), che dispone una rigida procedura di formazione
delle graduatorie dei detenuti aspiranti ad un impiego lavorativo, rappresenti
un notevole passo avanti nella direzione di una gestione più efficace
e trasparente dell’intera Istituzione carceraria. In particolare, l’articolo
richiamato, prevede che alla formazione di tali graduatorie sia adibita
una apposita commissione di istituto “composta dal direttore, da un appartenente
al ruolo degli ispettori o dei sovrintendenti del Corpo della Polizia Penitenziaria
e da un rappresentante del personale educativo, eletti all’interno della
categoria di appartenenza”, nonché da due rappresentanti dei sindacati
dei lavoratori maggiormente rappresentativi rispettivamente a livello nazionale
e locale ed, infine, da un rappresentante del Ministero del lavoro. Tale
Commissione deve basarsi, ai fini dell’assegnazione al lavoro, esclusivamente
sui criteri oggettivi della anzianità di disoccupazione involontaria
e sui carichi familiari degli aspiranti, analogamente a quanto previsto
dalla normativa generale per i cittadini liberi in cerca di occupazione.
A tutt’oggi si deve purtroppo constatare la pressoché completa inattuazione
della norma, in parte per difficoltà di carattere organizzativo,
in parte per la fortissima resistenza opposta da parte della Polizia Penitenziaria,
non disgiunta dal disinteresse dimostrato dai rappresentanti sindacali
e del Ministero del Lavoro. La stessa relazione governativa sul Nuovo regolamento
si esprime con molta franchezza: ”si deve riparare una gravissima mancanza
di risorse lavorative interne. Riescono a lavorare meno del 15% dei detenuti.
Ciò rappresenta una violazione della previsione dell’art. 20 della
legge, per quanto concerne i condannati e gli internati”, (…) nonché
dell’art 15, per quanto concerne gli imputati.
La
strada intrapresa dal nuovo regolamento consiste nel potenziamento delle
cosiddette “lavorazioni” artigianali, tradizionali attività all’interno
degli istituti, cadute ultimamente un po’ in disuso: falegnamerie, concerie,
officine meccaniche etc; nella previsione della possibilità di impiegare
cooperative sociali nei lavori all’interno degli Istituti; nella previsione
del lavoro a domicilio da parte dei detenuti.
4. Considerazioni conclusive
L’interrogativo
emergente dalle scarne e frammentarie riflessioni che ho tentato di proporre
qui, a me pare riguardi specificamente – al di là delle soluzioni
normative adottate nella gestione dell’esecuzione penale interna a gli
istituti – proprio la distanza preoccupante che separa istituti giuridici
e prassi applicative. A tale interrogativo – che pervade l’intera materia,
al di là dei due temi che ho tentato di illustrare – credo sarebbe
riduttivo rispondere, come pure spesso non si manca di fare, con argomentazioni
concernenti carenze di risorse, umane e materiali. Queste esistono al di
là di ogni dubbio, ma lungi dal costituire delle risposte, sembrano
piuttosto delle ulteriori angosciose domande. Delle due infatti l’una:
o si teorizza che la confusione organizzativa sia un dato fisiologico ed
immanente a qualsiasi funzione svolta dallo stato apparato (e francamente,
non mi pare che così sia, esistendo senza dubbio soluzioni all’avanguardia
per efficienza ed efficacia, sia pure in altri settori di intervento pubblico);
oppure viceversa si prende atto che le disfunzioni in questo campo rischiano
di assumere non carattere accidentale, bensì di scelta politica.
Si tratta
di scelte non dichiarate, senza dubbio, ma piuttosto – come dire? – in
rebus ipsis. Il sistema dell’esecuzione penale rischia però,
in virtù di messaggi contraddittori ed incoerenti da parte del potere
politico, di rimanere confinato in una sorta di schizofrenia, tra leggi
tanto illuminate quanto inattuabili e prassi tanto diffuse quanto distorte.
Parallelamente alla norma scritta, che garantisce, nella nostra cultura
giuridica certezza del diritto oggettivo e concreta azionabilità
di quello soggettivo, cresce e prospera una sorta di ordinamento ombra,
discrezionale ed ondivago, inappellabile e, in parte, inconoscibile.
In questo
senso due fatti accaduti di recente sono di una chiarezza illuminante:
il primo riguarda la proposta di creazione all’interno della amministrazione
penitenziaria, della figura dell’ombudsman, o difensore civico.
Si tratterebbe senza dubbio di una innovazione in grado di mettere in crisi
la coesistenza pacifica di leggi scritte e prassi confliggenti. Purtroppo
la proposta di legge relativa giace in Parlamento oramai da qualche anno,
unitamente ad un’altra che, recependo numerose raccomandazioni della Comunità
Europea, introduce nel nostro Codice Penale il reato di tortura.
D’altra
parte, una recente sentenza della Corte Costituzionale, (n° 26 del
11.02.1999), pur stabilendo il principio della ricorribilità da
parte dei detenuti avverso le decisioni dell’Amministrazione Penitenziaria
innanzi ad un organismo giurisdizionale, ne condiziona il concreto esercizio
all’emanazione di normativa specifica da parte dell’organo legislativo,
nella acuta consapevolezza di quale effetto dirompente potrebbe avere l’immediata
azionabilità dei ricorsi da parte del cittadino detenuto.
E’
mia modesta opinione che ciò dipenda, almeno in parte da un problema
di carattere culturale, che ha condotto – in modo tutt’altro che lineare
– ad una sorta di compromesso tra istanze politiche contrapposte. In virtù
di tale compromesso, è stato possibile varare norme di grande apertura,
che disegnano una esecuzione rispettosa della dignità della persona
e tesa al sostegno ad un possibile cambiamento degli stili di vita devianti.
Ma al tempo stesso a tali norme si è tacitamente attribuito carattere
programmatico, di obbiettivo cui tendere, piuttosto che di immediata ed
inderogabile cogenza. Ciò riguarda sia la norma costituzionale,
sia la legge penitenziaria. Mi permetto di formulare qui l’auspicio che
diversa possa essere la sorte del nuovo regolamento penitenziario, che
mi auguro possa divenire concreto strumento per un autentico salto di qualità
in un’esecuzione delle sanzioni penali maggiormente coerente ed ispirata
a valori di autentica democrazia.
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ISTITUTI, MODALITÀ E TENDENZE
NEL SISTEMA DELL’ESECUZIONE PENALE ITALIANA: ELEMENTI PER UN CONFRONTO
CON L’ESPERIENZA SPAGNOLA
Domenico Arena
RESUMEN:
PALABRAS CLAVES:
FECHA DE PUBLICACIÓN EN RECPC:
7
de agosto de 2000
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